Questa notte, come tutte le notti, non ho tanta voglia di andare a nanna ed inizio a “farmi un giro” in internet per trovare qualcosa che mi tenga ancora sveglio. Per caso ho trovato un video su you tube che mi ha fatto morire dalle risate…l’ho visto almeno quattro volte consecutivamente: Bush preso a scarpate in faccia da un giornalista arabo. Che peccato che il giornalista non sia riuscito a beccarlo! Potrebbe essere un’idea e una moda per il prossimo 2009 quella di prendere a scarpate in faccia tutti i nostri politici sia di destra che di sinistra ed anche di centro, al caso esistesse un centro. Si, una campagna pubblicitaria su come utilizzare le scarpe vecchie che ingombrano i nostri armadi. Tra l’altro, non penso che sia un reato grave prendere qualcuno a scarpate. Credo che un po’ tutti abbiamo assaggiato le scarpe o le ciabatte della mamma e della nonna e non ricordo di averle viste processare, per questo motivo. Addirittura si potrebbero mettere in palio dei premi per ogni obiettivo centrato. Ad esempio una t-shirt o un cappellino con la foto del politico centrato dal tiro. Ovviamente, si possono utilizzare al massimo due tiri ed una scarpa alla volta. La variante, per coloro che sono più “guerriglieri”, potrebbe essere quella di lanciare insieme alle scarpe anche i calzini, utilizzati per il lavoro e non cambiati da una settimana. Fatemi sapere
sabato 20 dicembre 2008
martedì 16 dicembre 2008
lunedì 24 novembre 2008
Aglia...un eredità scomoda
http://temi.repubblica.it/micromega-online/fascist-legacy-uneredita-scomoda/
Ecco il link subito.
Poi se vi va 5 video che illustrano un momento storico triste, con aggravante la guerra.
Dispiace.
Che può sembrare niente a confronto.
Lo è.
Siamo fortunati, noi che possiamo saltellare tra notizie ed immagini, ascoltando buona musica e dandosi arie di intelletuali ed artisti(parlo per me).
Ci sono tante verità storiche, e su tutte la Storia, che a prescindere dai vinti ed i vincitori, tra un alba ed un tramonto ha testimoniato tante cose in questi secoli, magari attraverso mosaici, racconti cantati, e via via, fino alle immagini delle prime cineprese a quelle ultime e facili di youtube e del digitale ovunque e comunque... nel bene nel male.
Un alba ed un tramonto, un giorno.
Oggi, mezzo influenzato, ancora fortunatissimo.
Penso a quello che ho visto.
Un solo pensiero azione:
Stop a tutte le guerre!
Ecco il link subito.
Poi se vi va 5 video che illustrano un momento storico triste, con aggravante la guerra.
Dispiace.
Che può sembrare niente a confronto.
Lo è.
Siamo fortunati, noi che possiamo saltellare tra notizie ed immagini, ascoltando buona musica e dandosi arie di intelletuali ed artisti(parlo per me).
Ci sono tante verità storiche, e su tutte la Storia, che a prescindere dai vinti ed i vincitori, tra un alba ed un tramonto ha testimoniato tante cose in questi secoli, magari attraverso mosaici, racconti cantati, e via via, fino alle immagini delle prime cineprese a quelle ultime e facili di youtube e del digitale ovunque e comunque... nel bene nel male.
Un alba ed un tramonto, un giorno.
Oggi, mezzo influenzato, ancora fortunatissimo.
Penso a quello che ho visto.
Un solo pensiero azione:
Stop a tutte le guerre!
Il governo Berlusconi ha venduto la nostra acqua
In Italia l'acqua e' stata privatizzata! La notizia e' passata nel silenzio piu' assoluto, ma facendo una ricerca in rete spuntano diverse conferme: il 5 agosto il Parlamento italiano ha votato l’articolo 23 bis del decreto legge numero 112, scritto dal ministro G. Tremonti. Nel comma 1 si afferma che la gestione dei servizi idrici deve essere sottomessa alle regole dell’economia capitalistica. Scrive Alex Zanotelli sul settimanale Carta: “Cosi' il governo Berlusconi, con l’assenso dell’opposizione, ha decretato che l’Italia e' oggi tra i paesi per i quali l’acqua e' una merce (in mano alle multinazionali). Dopo questi anni di lotta contro la privatizzazione dell’acqua con tanti amici, con comitati locali e regionali, con il Forum e il Contratto Mondiale dell’acqua, queste notizie sono per me un pugno allo stomaco, che mi fa male.” Ci aspetta un futuro di proteste, come gia' e' accaduto ad Aprilia, in provincia di Latina. Nel 2005 Acqualatina, (in mano, col 46,5% delle azioni, alla multinazionale Veolia) decide di aumentare le bollette del 300%. 4.000 famiglie iniziano una protesta pacifica rifiutandosi di pagare l'acqua all'azienda privata e versando i soldi al Comune. Ora, pare che Acqualatina abbia iniziato a mandare casa per casa vigilantes e carabinieri a staccare i contatori e chiudere i rubinetti. “E’ una resistenza eroica e impari questa di Aprilia: la gente si sente abbandonata a se stessa. Non possiamo lasciarli soli!” aggiunge Zanotelli. Parole prese alla lettera dal Parlamento... ora il problema e' nazionale!!! (Fonte: Caserta24ore, ne parla anche un articolo di Rosaria Ruffini dal titolo Acqua in bocca: vi abbiamo venduto l'acqua. http://www.peacelink.it/consumo/a/27507.html) Simone Canova
mercoledì 19 novembre 2008
Far Oer, Danimarca, il massacro dei Delfini Balena
Quando i delfini balena si avvicinano alle isole Far Oer della Danimarca è un giorno di festa. Le scuole chiudono e i bambini si recano in spiaggia insieme ai genitori. La popolazione, vestita con i costumi tradizionali, si appresta a ricevere i cetacei.I delfini balena arrivano in gruppi, molte femmine con i piccoli. Sono animali socievoli, curiosi e non hanno timore dell'uomo. E' il grande spettacolo di autunno per gli isolani. In motoscafo spingono le balene nelle baie dove l'acqua è poco profonda.Quindi si avvicinano con fiocine di due chili e le piantano più volte nelle carni degli animali finchè non li hanno immobilizzati. I carnefici delle Far Oer possono allora estrarre i coltelli da 15 centimetri e tagliare grasso e carne viva per trapassare la spina dorsale. I piccoli danesi applaudono mentre le balene gridano. Non lo sapevate? Le balene gridano come gli esseri umani quando sono macellate. L'acqua acquista un bel colore rosso sangue. 2.000 balene sono trascinate sulla riva dai coraggiosi abitanti delle Far Oer per essere lasciate agonizzare. La maggior parte marcisce ed è ributtata a mare.Il delfino balena è una specie protetta e non si conosce il numero di esemplari ancora esistente.Invito i lettori del blog a non recarsi in vacanza nelle isole Far Oer o a comprare prodotti danesi fino a quando questo ignobille massacro durerà.Inviate una mail alla regina di Danimarca per chiederle di intervenire e promuovete questa iniziativa sul vostro blog.
domenica 16 novembre 2008
mercoledì 5 novembre 2008
Il Giovedì Nero
Mentre negli USA si pensava di cambiare faccia e puntare sul nome del nero e giovane Osama, in Italia un gruppo di fascisti o neonazisti, non ho parole per definirli ma di sicuro con l’anima nera, invadevano la RAI, scavalcando ogni sbarramento, checkpoint, macchinetta obliteratrice, guardiano e guardia della sicurezza per dimostrare la propria arroganza e far capire che sono protetti e tutelati dai nostri governanti. L’episodio mi riporta alla mente i tragici eventi che anticipavano i colpi di stato susseguitosi nel corso del secolo scorso. Nel terzo millennio gli Stati Uniti hanno avuto la capacità di cambiare eleggendo un Presidente di colore, nonostante il loro passato di razzisti e di Ku Klux Klan. L’Italia dei grandi pensatori rivoluzionari come Carlo Cafiero, Primo Levi, Errico Malatesta, Antonio Gramsci si riscopre, oggi, nera e fascista e si confronta con le altre democrazie, pronte al rinnovamento, con una “squadra” di piduisti, delinquenti e vecchi obsoleti che ci tolgono il fiato ed ogni speranza. Il piduista capo del Governo, i Gelli, i Napolitano, gli Andreotti devono andarsene a casa!
Stranamente ci sono già delle difficoltà nel visualizzare questo video, in vari luoghi della rete censurato. Per ora ne trovo ancora disponibile uno e ve lo invio.
Stranamente ci sono già delle difficoltà nel visualizzare questo video, in vari luoghi della rete censurato. Per ora ne trovo ancora disponibile uno e ve lo invio.
lunedì 3 novembre 2008
domenica 2 novembre 2008
Parlamentari condannati che parlamentano
PARLAMENTARI CONDANNATI (aggiornato a maggio 2008)
Fonti: “Se li conosci li eviti” di Marco Travaglio e Peter Gomez - Camera dei Deputati (http://www.camera.it/), Senato della Repubblica (http://www.senato.it/)
Berruti Massimo Maria (FI): condannato in via definitiva a 8 mesi per favoreggiamento.
Bonsignore Vito (europarlamentare FI): condannato definitivamente a 2 anni per tentata concussione nello scandalo delle tangenti per il nuovo ospedale di Asti.
Mario Borghezio (europarlamentare Lega Nord): condannato in via definitiva per incendio aggravato da "finalità di discriminazione", per aver dato fuoco ai pagliericci di alcuni immigrati che dormivano sotto un ponte di Torino, a 2 mesi e 20 giorni di reclusione commutati in 3.040 euro di multa.
Bossi Umberto (Lega Nord): condannato in via definitiva a 8 mesi di reclusione per 200 milioni di finanziamento illecito dalla maxitangente Enimont.
Cantoni Giampiero (FI): ha patteggiato 2 anni di reclusione per corruzione e concorso in bancarotta e risarcito 800 milioni di lire.
Carra Enzo (PD): una condanna in via definitiva per false dichiarazioni al pubblico ministero. Per i giudici, Carra è un falso testimone che, con il suo «comportamento omertoso» e la sua «grave condotta antigiuridica», ha tentato di «assicurare l’impunità a colpevoli di corruzione, falso in bilancio e finanziamento illecito» nel caso Enimont. Parola del Tribunale e della Corte d’Appello di Milano, nonché della Cassazione, che l’hanno condannato prima a 2 anni e poi a 1 anno e 4 mesi (grazie allo sconto del rito abbreviato) di carcere.
Ciarrapico Giuseppe (PDL): è stato condannato a 3 anni definitivi per il crack da 70 miliardi della Casina Valadier (ricettazione fallimentare) e ad altri 4 e mezzo per il crack Ambrosiano (bancarotta fraudolenta).
De Angelis Marcello (AN): condannato in via definitiva a 5 anni di carcere per banda armata e associazione sovversiva come dirigente e portavoce del gruppo neofascista Terza Posizione.
Dell’Utri Marcello (FI): condannato definitivamente a Torino a 2 anni e 3 mesi per false fatture e frodi fiscali nella gestione di Publitalia (reato per cui fu arrestato per 18 giorni nel maggio 1995 e poi patteggiò la pena in Cassazione).
Farina Renato (FI): Farina patteggia una pena di 6 mesi di reclusione per favoreggiamento nel sequestro di Abu Omar, l’imam egiziano rifugiato in Italia, sequestrato a Milano il 17 febbraio 2003 dalla Cia con l’aiuto del Sismi, trasportato nella base americana di Aviano e di lì deportato in Egitto, dove fu torturato per sette mesi.
La Malfa Giorgio (FI): condannato definitivamente a 6 mesi per il finanziamento illecito della maxitangente Enimont.
Maroni Roberto (Lega Nord): condannato definitivamente a 4 mesi e 20 giorni per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale durante la perquisizione della polizia nella sede di via Bellerio a Milano.
Nania Domenico (AN): arrestato per 10 giorni e poi condannato in via definitiva a 7 mesi per lesioni personali legate ad attività violente nei gruppi giovanili di estrema destra (fatti dell’ottobre ’69, sentenza emessa nel 1977 e divenuta definitiva nel 1980).
Naro Giuseppe (UDC): condannato in primo grado a 3 anni e in Cassazione a 6 mesi definitivi di reclusione (erano 3 anni in primo grado) per abuso d’ufficio nel processo per l’acquisto con denaro pubblico di 462 ingrandimenti fotografici, alla modica cifra di 800 milioni di lire.
Papania Antonio (PD): il 24 gennaio 2002 ha patteggiato davanti al gip di Palermo una pena di 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d’ufficio.
Sciascia Salvatore (FI): condannato definitivamente a 2 anni e 6 mesi per aver corrotto alcuni ufficiali e sottufficiali della Guardia di finanza.
Tomassini Antonio (FI): medico chirurgo, è stato condannato in via definitiva dalla Cassazione a 3 anni di reclusione per falso.
http://www.beppegrillo.it/
Fonti: “Se li conosci li eviti” di Marco Travaglio e Peter Gomez - Camera dei Deputati (http://www.camera.it/), Senato della Repubblica (http://www.senato.it/)
Berruti Massimo Maria (FI): condannato in via definitiva a 8 mesi per favoreggiamento.
Bonsignore Vito (europarlamentare FI): condannato definitivamente a 2 anni per tentata concussione nello scandalo delle tangenti per il nuovo ospedale di Asti.
Mario Borghezio (europarlamentare Lega Nord): condannato in via definitiva per incendio aggravato da "finalità di discriminazione", per aver dato fuoco ai pagliericci di alcuni immigrati che dormivano sotto un ponte di Torino, a 2 mesi e 20 giorni di reclusione commutati in 3.040 euro di multa.
Bossi Umberto (Lega Nord): condannato in via definitiva a 8 mesi di reclusione per 200 milioni di finanziamento illecito dalla maxitangente Enimont.
Cantoni Giampiero (FI): ha patteggiato 2 anni di reclusione per corruzione e concorso in bancarotta e risarcito 800 milioni di lire.
Carra Enzo (PD): una condanna in via definitiva per false dichiarazioni al pubblico ministero. Per i giudici, Carra è un falso testimone che, con il suo «comportamento omertoso» e la sua «grave condotta antigiuridica», ha tentato di «assicurare l’impunità a colpevoli di corruzione, falso in bilancio e finanziamento illecito» nel caso Enimont. Parola del Tribunale e della Corte d’Appello di Milano, nonché della Cassazione, che l’hanno condannato prima a 2 anni e poi a 1 anno e 4 mesi (grazie allo sconto del rito abbreviato) di carcere.
Ciarrapico Giuseppe (PDL): è stato condannato a 3 anni definitivi per il crack da 70 miliardi della Casina Valadier (ricettazione fallimentare) e ad altri 4 e mezzo per il crack Ambrosiano (bancarotta fraudolenta).
De Angelis Marcello (AN): condannato in via definitiva a 5 anni di carcere per banda armata e associazione sovversiva come dirigente e portavoce del gruppo neofascista Terza Posizione.
Dell’Utri Marcello (FI): condannato definitivamente a Torino a 2 anni e 3 mesi per false fatture e frodi fiscali nella gestione di Publitalia (reato per cui fu arrestato per 18 giorni nel maggio 1995 e poi patteggiò la pena in Cassazione).
Farina Renato (FI): Farina patteggia una pena di 6 mesi di reclusione per favoreggiamento nel sequestro di Abu Omar, l’imam egiziano rifugiato in Italia, sequestrato a Milano il 17 febbraio 2003 dalla Cia con l’aiuto del Sismi, trasportato nella base americana di Aviano e di lì deportato in Egitto, dove fu torturato per sette mesi.
La Malfa Giorgio (FI): condannato definitivamente a 6 mesi per il finanziamento illecito della maxitangente Enimont.
Maroni Roberto (Lega Nord): condannato definitivamente a 4 mesi e 20 giorni per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale durante la perquisizione della polizia nella sede di via Bellerio a Milano.
Nania Domenico (AN): arrestato per 10 giorni e poi condannato in via definitiva a 7 mesi per lesioni personali legate ad attività violente nei gruppi giovanili di estrema destra (fatti dell’ottobre ’69, sentenza emessa nel 1977 e divenuta definitiva nel 1980).
Naro Giuseppe (UDC): condannato in primo grado a 3 anni e in Cassazione a 6 mesi definitivi di reclusione (erano 3 anni in primo grado) per abuso d’ufficio nel processo per l’acquisto con denaro pubblico di 462 ingrandimenti fotografici, alla modica cifra di 800 milioni di lire.
Papania Antonio (PD): il 24 gennaio 2002 ha patteggiato davanti al gip di Palermo una pena di 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d’ufficio.
Sciascia Salvatore (FI): condannato definitivamente a 2 anni e 6 mesi per aver corrotto alcuni ufficiali e sottufficiali della Guardia di finanza.
Tomassini Antonio (FI): medico chirurgo, è stato condannato in via definitiva dalla Cassazione a 3 anni di reclusione per falso.
http://www.beppegrillo.it/
sabato 1 novembre 2008
venerdì 31 ottobre 2008
giovedì 30 ottobre 2008
Un esempio virtuoso di riciclo. Il centro di Vedelago
Le soluzioni per il trattamento della frazione residuale non riciclabile dei rifiuti, alternative all’incenerimento o alla discarica, esistono, ed alcune di esse sono di facile e pronta realizzazione,con costi di investimento contenuti, capaci di produrre occupazione ed utili tali da remunerare adeguatamente il capitale investito, ma soprattutto di minimo impatto ambientale.
Un esempio su tutti e’ il trattamento dei rifiuti che si realizza nel centro riciclo di Vedelago (TV).
La societa’ si occupa dal 1999 di stoccaggio e selezione meccanica di rifiuti, finalizzata al recupero dei materiali.
L’azienda possiede due impianti di selezione con una capacità di trattamento media di 35t/giorno ognuno. In ogni impianto di questo tipo, ed in ogni raccolta differenziata, c’e’ sempre una percentuale di secco che viene considerata scarto non riciclabile, perche’ sporco o non recuperabile. Per lo smaltimento di tale frazione residuale da sempre la ditta era ricorsa ad inceneritori e discariche. Ma negli ultimi anni grazie all’impegno nella ricerca ed una collaborazione con l’Universita’ di Padova, e’ nata “SABBIA SINTETICA” un granulato derivante da plastiche eterogenee da raccolta differenziata realizzato proprio con tale frazione non riciclabile tramite un procedimento di minimo impatto ambientale e sanitario.
I possibili utilizzi di questo prodotto (grazie alla norma Uniplast specifica 10667/14) sono molteplici: da semplice sostituto della sabbia di cava nei calcestruzzi, ad aggregato alleggerente nelle malte cementizie o a legante per manufatti in cemento.
Dalle sperimentazioni fatte risulta, inoltre, che questo nuovo prodotto migliora le caratteristiche e le prestazioni di alcuni conglomerati cementizi, in termini di fonoisolazione e termoisolazione.
Il processo per ottenere la”sabbia sintetica” si puo’ riassumere in una plastificazione e addensamento tramite estrusione di rifiuti plastici, in cui vengono ridotti a pezzettini, mescolati, portati ad alta temperatura e rimiscelati. L’impianto ha una capacita’ di trattamento pari a 3t/ora.
La frazione non recuperabile dei rifiuti prima rappresentava un costo di produzione per l’azienda, perche’ doveva essere trattata per finire negli inceneritori o in discarica; ora, invece puo’ essere venduta come nuovo materiale, ammortizzando i costi di produzione e traendone addirittura guadagno.
E’ importante sottolineare che ne trae vantaggio l’azienda che ricava un utile da cio’ che prima costituiva un costo di produzione, ma soprattutto i cittadini del treviggiano che non pagano la tariffa dei rifiuti per lo smaltimento del materiale plastico di scarto, e la cui giunta provinciale ha deciso di revocare i decreti per la costruzione di due discariche, perche’ grazie alla nuova tecnologia dell’azienda di Vedelago non servono piu’.
Con questo processo, quindi, si puo’ avviare un riciclo integrale del rifiuto plastico altrimenti non recuperabile e poter avvicinarsi realmente all’obiettivo “rifiuti zero”.
Allo stato attuale il 98,2 percento dei materiali in entrata viene recuperato e agevolmente collocato sul mercato traendone elevata remunerazione.
Questa non e’ solo la storia di un piccolo comune cosiddetto “riciclone”, ne’ si tratta di un impianto con potenzialita’ limitate a piccole quantita’ di rifiuti da trattare. Con un investimento iniziale di soli cinque milioni di euro il centro attualmente riesce a servire un bacino di un milione di abitanti della provincia di Treviso e dei comuni di Belluno, Vicenza e del Bassanese.
E il modello e’ replicabile su scala piu’ ampia. Al punto che l’azienda ha vinto una gara a livello internazionale per dodici comuni della Sardegna dove verra’ realizzato un impianto gemello, e sta diventando un punto di riferimento per molte aziende all’estero, dall’Olanda alla Germania, ed anche dal Giappone e dalla Cina.
(tratto da “uniti nell’emergenza”libretto distribuito dai comitati per l’emergenza rifiuti a Napoli )
a cura de:
Archintorno-coordinamento civico flegreo-altromodoflegreo-associazione area flegrea-associazione lello mele- associazione mayaprocida-associazione oltre l’averno- comitato attiva-mente Pozzuoli- comitato cuma vive- comitato kime bacoli- comitato salute pubblica bacoli- comitato popolare via Napoli- la rete degli orti comuni-zenbioagricoltura- meetup Pozzuoli- meet up Procida- osservatorio civico di Procida- rete donne in nero- ingegneria senza frontiere Napoli- nalug- panta recicle
Un esempio su tutti e’ il trattamento dei rifiuti che si realizza nel centro riciclo di Vedelago (TV).
La societa’ si occupa dal 1999 di stoccaggio e selezione meccanica di rifiuti, finalizzata al recupero dei materiali.
L’azienda possiede due impianti di selezione con una capacità di trattamento media di 35t/giorno ognuno. In ogni impianto di questo tipo, ed in ogni raccolta differenziata, c’e’ sempre una percentuale di secco che viene considerata scarto non riciclabile, perche’ sporco o non recuperabile. Per lo smaltimento di tale frazione residuale da sempre la ditta era ricorsa ad inceneritori e discariche. Ma negli ultimi anni grazie all’impegno nella ricerca ed una collaborazione con l’Universita’ di Padova, e’ nata “SABBIA SINTETICA” un granulato derivante da plastiche eterogenee da raccolta differenziata realizzato proprio con tale frazione non riciclabile tramite un procedimento di minimo impatto ambientale e sanitario.
I possibili utilizzi di questo prodotto (grazie alla norma Uniplast specifica 10667/14) sono molteplici: da semplice sostituto della sabbia di cava nei calcestruzzi, ad aggregato alleggerente nelle malte cementizie o a legante per manufatti in cemento.
Dalle sperimentazioni fatte risulta, inoltre, che questo nuovo prodotto migliora le caratteristiche e le prestazioni di alcuni conglomerati cementizi, in termini di fonoisolazione e termoisolazione.
Il processo per ottenere la”sabbia sintetica” si puo’ riassumere in una plastificazione e addensamento tramite estrusione di rifiuti plastici, in cui vengono ridotti a pezzettini, mescolati, portati ad alta temperatura e rimiscelati. L’impianto ha una capacita’ di trattamento pari a 3t/ora.
La frazione non recuperabile dei rifiuti prima rappresentava un costo di produzione per l’azienda, perche’ doveva essere trattata per finire negli inceneritori o in discarica; ora, invece puo’ essere venduta come nuovo materiale, ammortizzando i costi di produzione e traendone addirittura guadagno.
E’ importante sottolineare che ne trae vantaggio l’azienda che ricava un utile da cio’ che prima costituiva un costo di produzione, ma soprattutto i cittadini del treviggiano che non pagano la tariffa dei rifiuti per lo smaltimento del materiale plastico di scarto, e la cui giunta provinciale ha deciso di revocare i decreti per la costruzione di due discariche, perche’ grazie alla nuova tecnologia dell’azienda di Vedelago non servono piu’.
Con questo processo, quindi, si puo’ avviare un riciclo integrale del rifiuto plastico altrimenti non recuperabile e poter avvicinarsi realmente all’obiettivo “rifiuti zero”.
Allo stato attuale il 98,2 percento dei materiali in entrata viene recuperato e agevolmente collocato sul mercato traendone elevata remunerazione.
Questa non e’ solo la storia di un piccolo comune cosiddetto “riciclone”, ne’ si tratta di un impianto con potenzialita’ limitate a piccole quantita’ di rifiuti da trattare. Con un investimento iniziale di soli cinque milioni di euro il centro attualmente riesce a servire un bacino di un milione di abitanti della provincia di Treviso e dei comuni di Belluno, Vicenza e del Bassanese.
E il modello e’ replicabile su scala piu’ ampia. Al punto che l’azienda ha vinto una gara a livello internazionale per dodici comuni della Sardegna dove verra’ realizzato un impianto gemello, e sta diventando un punto di riferimento per molte aziende all’estero, dall’Olanda alla Germania, ed anche dal Giappone e dalla Cina.
(tratto da “uniti nell’emergenza”libretto distribuito dai comitati per l’emergenza rifiuti a Napoli )
a cura de:
Archintorno-coordinamento civico flegreo-altromodoflegreo-associazione area flegrea-associazione lello mele- associazione mayaprocida-associazione oltre l’averno- comitato attiva-mente Pozzuoli- comitato cuma vive- comitato kime bacoli- comitato salute pubblica bacoli- comitato popolare via Napoli- la rete degli orti comuni-zenbioagricoltura- meetup Pozzuoli- meet up Procida- osservatorio civico di Procida- rete donne in nero- ingegneria senza frontiere Napoli- nalug- panta recicle
L'analfabetismo economico
L'ANALFABETISMO ECONOMICO
Chávez ha parlato a Zulia sul "camerata Sarkozy", e l’ha detto con una certa ironia, ma senza intenzione di ferirlo. Anzi, ha voluto piuttosto riconoscere la sua sincerità, quando, nella sua condizione di Presidente rotativo della Comunità di Paese Europei, ha parlato a Beijing.
Nessuno proclamava ciò che tutti i leader europei conoscono e non confessano: il sistema finanziario attuale non serve e bisogna cambiarlo. Il Presidente venezuelano ha esclamato con franchezza:
"È impossibile rifondare il sistema capitalistico, sarebbe come un tentativo di mettere a navigare il Titanic dopo che sta in fondo dell'Oceano."
Nella riunione dell'Associazione di Nazioni Europee ed Asiatiche, alla quale hanno partecipato 43 paesi, Sarkozy ha fatto confessioni notevoli, secondo i dispacci telegrafici:
"Il mondo va male, affronta una crisi finanziaria senza precedenti per la sua grandezza, rapidità, violenza, e le sue conseguenze sull'ecosistema mettono in questione la sopravvivenza dell'umanità: 900 milioni di persone non hanno i mezzi per alimentarsi.
"Quelli che partecipiamo a questa riunione rappresentiamo due terzi della popolazione del pianeta e la metà delle sue ricchezze; la crisi finanziaria cominciò negli Stati Uniti, ma è mondiale e la risposta deve essere mondiale."
"Il posto per un bambino di 11 anni non è la fabbrica ma la scuola."
"Nessuna regione del mondo deve dare lezione a nessuno". Una chiara allusione alla politica degli Stati Uniti.
Alla fine ricordò davanti alle nazioni dell'Asia il passato colonizzatore dell'Europa in quel continente.
Se Granma avesse sottoscritto quelle parole, avrebbero detto che si trattava di un cliché della stampa ufficiale comunista.
Il Ministro degli Affari Esteri della Germania, la signora Angela Merkel, ha detto a Beijing che "non poteva prevedersi l'entità e la durata della crisi finanziaria internazionale in corso. Si tratta, né più né meno, della creazione di una nuova lettera costitutiva delle finanze". Quello stesso giorno si sono diffuse notizie che rivelano l'incertezza generale scatenatasi.
Nella riunione di Beijing, i 43 paesi dell'Europa e dell’Asia hanno convenuto che il FMI dovrebbe svolgere un ruolo importante aiutando ai paesi gravemente colpiti dalla crisi, e hanno appoggiato un vertice interregionale nella ricerca della stabilità a lungo termine e dello sviluppo dell'economia mondiale.
Il presidente del governo spagnolo, Rodríguez Zapatero, ha dichiarato che "c’era una crisi di responsabilità nella quale pochi si sono arricchiti e la maggioranza si sta impoverendo" che "i mercati non hanno fiducia nei mercati." Ha invitato i paesi a fuggire dal protezionismo, convinto che la concorrenza farebbe che i mercati finanziari svolgessero il loro ruolo. Non è stato ufficialmente invitato al vertice di Washington per l'atteggiamento rancoroso di Bush che non gli perdona il ritiro delle truppe spagnole dall'Iraq.
Il presidente della Commissione Europea, José Manuel Durão Barroso, ha appoggiato la sua avvertenza sul protezionismo.
D’altra parte Il segretario generale dell'ONU, Ban Ki- moon, incontrava eminenti economisti per tentare d’evitare che i paesi in sviluppo siano le principali vittime della crisi.
Miguel D'Escoto, ex ministro degli Affari Esteri della Rivoluzione Sandinista ed attuale presidente dell'Assemblea Generale dell'ONU, chiedeva che la questione della crisi finanziaria non si discutesse al G 20 tra i paesi più ricchi ed un gruppo di nazioni emergenti, bensì alle Nazioni Unite.
Ci sono dispute a proposito del posto e della riunione dove deve adottarsi un nuovo sistema finanziario che metta fine al caos e all'assenza totale di sicurezza per i paesi. Esiste gran paura che i paesi più ricchi del mondo, riuniti con un gruppo ridotto di paesi emergenti colpiti dalla crisi finanziaria, approvino un nuovo Bretton Woods ignorando il resto del mondo. Il presidente Bush ha dichiarato ieri che "i paesi che discuteranno qui il mese prossimo sulla crisi globale devono inoltre impegnarsi con i fondamenti della crescita economica a lungo termine: mercati liberi, libera impresa e libero commercio."
Le banche prestavano decine di dollari per ogni dollaro depositato per i risparmiatori. Moltiplicavano il denaro. Respiravano e traspiravano per tutti i pori. Qualunque contrazione li conduceva alla rovina o all'assorbimento da altre banche. Bisognava salvarli, sempre a costo dei contribuenti. Fabbricavano enormi fortune. I loro privilegiati azionisti maggioritari potevano pagare qualunque somma per qualunque cosa.
Shi Jianxun, professore dell'Università di Tongui, Shanghai, ha dichiarato in un articolo pubblicato sull'edizione esterna del Diario del Pueblo che "la cruda realtà ha portato alla gente, in mezzo al panico, a capire che gli Stati Uniti hanno utilizzato l'egemonia del dollaro per saccheggiare le ricchezze del mondo. Urge cambiare il sistema monetario internazionale basato sulla posizione dominante del dollaro."
Brevemente ha spiegato il ruolo essenziale delle monete nelle relazioni economiche internazionali. Così veniva succedendo da secoli tra Asia ed Europa: ricordiamo che l'oppio fu imposto alla Cina come moneta, ne ho parlato quando ho scritto La vittoria cinese.
Neanche argento metallico, con la quale pagavano inizialmente gli spagnoli dalla sua colonia in Filippine i prodotti acquisiti in Cina, desideravano ricevere le autorità di questo paese, perché si svalutava progressivamente a causa della sua abbondanza nel cosiddetto Nuovo Mondo conquistato dall'Europa. Oggi i governanti europei sentono perfino vergogna per le cose che avevano imposto alla Cina per secoli.
Le attuali difficoltà nelle relazioni di scambio tra quelli due continenti devono risolversi, secondo il criterio dell'economista cinese, con euro, libbre, yen e yüanes. Non c’è dubbio che la regolazione ragionevole tra quelle quattro monete aiuterebbe allo sviluppo di relazioni commerciali giuste tra Europa, Gran Bretagna, Giappone e Cina.
Sarebbero compresi in quella sfera Giappone e Germania. due paesi produttori di sofisticate apparecchiature di tecnologia di punta sia per la produzione che per i servizi, ed il maggiore motore in potenza dell'economia del mondo, la Cina, con circa 1,4 miliardi di abitanti e più di 1,5 mila miliardi di dollari nelle sue riserve di valute convertibili di cui la maggior parte sono dollari e buoni del Tesoro degli Stati Uniti. Dopo viene il Giappone con quasi le stesse cifre di riserve in valute.
Nell'attuale situazione, s’incrementa il valore del dollaro per la posizione dominante di questa moneta imposta sull'economia mondiale, giustamente indicata e respinta dal professore di Shanghai.
Numerosi paesi del Terzo Mondo, esportatori di prodotti e di materie prime con poco valore aggiunto, siamo importatori di prodotti di consumo cinesi, che normalmente hanno prezzi ragionevoli, e d’apparecchiature del Giappone e della Germania, i quali sono sempre più cari. Anche se la Cina ha cercato che lo yüan non si sopravvaluti, come chiedono continuamente i yankee per proteggere le loro industrie dalla concorrenza cinese, il valore dello yüan s’incrementa ed il potere d'acquisto delle nostre esportazioni diminuisce. Il prezzo del nichel, il nostro principale prodotto d’esportazione, il cui valore ha raggiunto più di 50 mila dollari la tonnellata di recente, negli ultimi giorni oltrepassava appena i 8 500 dollari la tonnellata, cioè, meno del 20 % del prezzo massimo raggiunto. Quello del rame è diminuito a meno del 50%; e così capita con il ferro, l’alluminio, lo stagno, lo zinco e tutti i minerali indispensabili per uno sviluppo sostenuto. I prodotti di consumo, come il caffè, il cacao, lo zucchero ed altri, oltre ogni senso razionale ed umano, in più di 40 anni hanno appena incrementato i loro prezzi. Quindi poco tempo fa avevo avvertito che come conseguenza della crisi che si avvicinava i mercati si sarebbero perduto ed il potere d'acquisto dei nostri prodotti si sarebbe diminuito notevolmente. In quella circostanza, i paesi capitalisti sviluppati sanno che le loro fabbriche e servizi si paralizzano, e solo la capacità di consumo di gran parte dell'umanità già negli indici di povertà, o sotto di questi, potrebbe mantenerli funzionando.
Ecco il gran dilemma che pone la crisi finanziaria ed il pericolo che gli egoismi sociali e nazionali prevalgano al di sopra dei desideri di molti politici e statisti angosciati davanti al fenomeno. Non hanno la minore fiducia nel proprio sistema del quale sono nati come uomini pubblici.
Quando un paese lascia dietro l'analfabetismo, sa leggere e scrivere, e possiede un minimo indispensabile di conoscenze per vivere e produrre onestamente, gli mancherebbe vincere ancora la peggiore forma d’ignoranza della nostra epoca: l'analfabetismo economico. Solo così potremmo sapere quello che sta succedendo nel mondo.
Fidel Castro Ruz
26 ottobre 2008
17:15
Chávez ha parlato a Zulia sul "camerata Sarkozy", e l’ha detto con una certa ironia, ma senza intenzione di ferirlo. Anzi, ha voluto piuttosto riconoscere la sua sincerità, quando, nella sua condizione di Presidente rotativo della Comunità di Paese Europei, ha parlato a Beijing.
Nessuno proclamava ciò che tutti i leader europei conoscono e non confessano: il sistema finanziario attuale non serve e bisogna cambiarlo. Il Presidente venezuelano ha esclamato con franchezza:
"È impossibile rifondare il sistema capitalistico, sarebbe come un tentativo di mettere a navigare il Titanic dopo che sta in fondo dell'Oceano."
Nella riunione dell'Associazione di Nazioni Europee ed Asiatiche, alla quale hanno partecipato 43 paesi, Sarkozy ha fatto confessioni notevoli, secondo i dispacci telegrafici:
"Il mondo va male, affronta una crisi finanziaria senza precedenti per la sua grandezza, rapidità, violenza, e le sue conseguenze sull'ecosistema mettono in questione la sopravvivenza dell'umanità: 900 milioni di persone non hanno i mezzi per alimentarsi.
"Quelli che partecipiamo a questa riunione rappresentiamo due terzi della popolazione del pianeta e la metà delle sue ricchezze; la crisi finanziaria cominciò negli Stati Uniti, ma è mondiale e la risposta deve essere mondiale."
"Il posto per un bambino di 11 anni non è la fabbrica ma la scuola."
"Nessuna regione del mondo deve dare lezione a nessuno". Una chiara allusione alla politica degli Stati Uniti.
Alla fine ricordò davanti alle nazioni dell'Asia il passato colonizzatore dell'Europa in quel continente.
Se Granma avesse sottoscritto quelle parole, avrebbero detto che si trattava di un cliché della stampa ufficiale comunista.
Il Ministro degli Affari Esteri della Germania, la signora Angela Merkel, ha detto a Beijing che "non poteva prevedersi l'entità e la durata della crisi finanziaria internazionale in corso. Si tratta, né più né meno, della creazione di una nuova lettera costitutiva delle finanze". Quello stesso giorno si sono diffuse notizie che rivelano l'incertezza generale scatenatasi.
Nella riunione di Beijing, i 43 paesi dell'Europa e dell’Asia hanno convenuto che il FMI dovrebbe svolgere un ruolo importante aiutando ai paesi gravemente colpiti dalla crisi, e hanno appoggiato un vertice interregionale nella ricerca della stabilità a lungo termine e dello sviluppo dell'economia mondiale.
Il presidente del governo spagnolo, Rodríguez Zapatero, ha dichiarato che "c’era una crisi di responsabilità nella quale pochi si sono arricchiti e la maggioranza si sta impoverendo" che "i mercati non hanno fiducia nei mercati." Ha invitato i paesi a fuggire dal protezionismo, convinto che la concorrenza farebbe che i mercati finanziari svolgessero il loro ruolo. Non è stato ufficialmente invitato al vertice di Washington per l'atteggiamento rancoroso di Bush che non gli perdona il ritiro delle truppe spagnole dall'Iraq.
Il presidente della Commissione Europea, José Manuel Durão Barroso, ha appoggiato la sua avvertenza sul protezionismo.
D’altra parte Il segretario generale dell'ONU, Ban Ki- moon, incontrava eminenti economisti per tentare d’evitare che i paesi in sviluppo siano le principali vittime della crisi.
Miguel D'Escoto, ex ministro degli Affari Esteri della Rivoluzione Sandinista ed attuale presidente dell'Assemblea Generale dell'ONU, chiedeva che la questione della crisi finanziaria non si discutesse al G 20 tra i paesi più ricchi ed un gruppo di nazioni emergenti, bensì alle Nazioni Unite.
Ci sono dispute a proposito del posto e della riunione dove deve adottarsi un nuovo sistema finanziario che metta fine al caos e all'assenza totale di sicurezza per i paesi. Esiste gran paura che i paesi più ricchi del mondo, riuniti con un gruppo ridotto di paesi emergenti colpiti dalla crisi finanziaria, approvino un nuovo Bretton Woods ignorando il resto del mondo. Il presidente Bush ha dichiarato ieri che "i paesi che discuteranno qui il mese prossimo sulla crisi globale devono inoltre impegnarsi con i fondamenti della crescita economica a lungo termine: mercati liberi, libera impresa e libero commercio."
Le banche prestavano decine di dollari per ogni dollaro depositato per i risparmiatori. Moltiplicavano il denaro. Respiravano e traspiravano per tutti i pori. Qualunque contrazione li conduceva alla rovina o all'assorbimento da altre banche. Bisognava salvarli, sempre a costo dei contribuenti. Fabbricavano enormi fortune. I loro privilegiati azionisti maggioritari potevano pagare qualunque somma per qualunque cosa.
Shi Jianxun, professore dell'Università di Tongui, Shanghai, ha dichiarato in un articolo pubblicato sull'edizione esterna del Diario del Pueblo che "la cruda realtà ha portato alla gente, in mezzo al panico, a capire che gli Stati Uniti hanno utilizzato l'egemonia del dollaro per saccheggiare le ricchezze del mondo. Urge cambiare il sistema monetario internazionale basato sulla posizione dominante del dollaro."
Brevemente ha spiegato il ruolo essenziale delle monete nelle relazioni economiche internazionali. Così veniva succedendo da secoli tra Asia ed Europa: ricordiamo che l'oppio fu imposto alla Cina come moneta, ne ho parlato quando ho scritto La vittoria cinese.
Neanche argento metallico, con la quale pagavano inizialmente gli spagnoli dalla sua colonia in Filippine i prodotti acquisiti in Cina, desideravano ricevere le autorità di questo paese, perché si svalutava progressivamente a causa della sua abbondanza nel cosiddetto Nuovo Mondo conquistato dall'Europa. Oggi i governanti europei sentono perfino vergogna per le cose che avevano imposto alla Cina per secoli.
Le attuali difficoltà nelle relazioni di scambio tra quelli due continenti devono risolversi, secondo il criterio dell'economista cinese, con euro, libbre, yen e yüanes. Non c’è dubbio che la regolazione ragionevole tra quelle quattro monete aiuterebbe allo sviluppo di relazioni commerciali giuste tra Europa, Gran Bretagna, Giappone e Cina.
Sarebbero compresi in quella sfera Giappone e Germania. due paesi produttori di sofisticate apparecchiature di tecnologia di punta sia per la produzione che per i servizi, ed il maggiore motore in potenza dell'economia del mondo, la Cina, con circa 1,4 miliardi di abitanti e più di 1,5 mila miliardi di dollari nelle sue riserve di valute convertibili di cui la maggior parte sono dollari e buoni del Tesoro degli Stati Uniti. Dopo viene il Giappone con quasi le stesse cifre di riserve in valute.
Nell'attuale situazione, s’incrementa il valore del dollaro per la posizione dominante di questa moneta imposta sull'economia mondiale, giustamente indicata e respinta dal professore di Shanghai.
Numerosi paesi del Terzo Mondo, esportatori di prodotti e di materie prime con poco valore aggiunto, siamo importatori di prodotti di consumo cinesi, che normalmente hanno prezzi ragionevoli, e d’apparecchiature del Giappone e della Germania, i quali sono sempre più cari. Anche se la Cina ha cercato che lo yüan non si sopravvaluti, come chiedono continuamente i yankee per proteggere le loro industrie dalla concorrenza cinese, il valore dello yüan s’incrementa ed il potere d'acquisto delle nostre esportazioni diminuisce. Il prezzo del nichel, il nostro principale prodotto d’esportazione, il cui valore ha raggiunto più di 50 mila dollari la tonnellata di recente, negli ultimi giorni oltrepassava appena i 8 500 dollari la tonnellata, cioè, meno del 20 % del prezzo massimo raggiunto. Quello del rame è diminuito a meno del 50%; e così capita con il ferro, l’alluminio, lo stagno, lo zinco e tutti i minerali indispensabili per uno sviluppo sostenuto. I prodotti di consumo, come il caffè, il cacao, lo zucchero ed altri, oltre ogni senso razionale ed umano, in più di 40 anni hanno appena incrementato i loro prezzi. Quindi poco tempo fa avevo avvertito che come conseguenza della crisi che si avvicinava i mercati si sarebbero perduto ed il potere d'acquisto dei nostri prodotti si sarebbe diminuito notevolmente. In quella circostanza, i paesi capitalisti sviluppati sanno che le loro fabbriche e servizi si paralizzano, e solo la capacità di consumo di gran parte dell'umanità già negli indici di povertà, o sotto di questi, potrebbe mantenerli funzionando.
Ecco il gran dilemma che pone la crisi finanziaria ed il pericolo che gli egoismi sociali e nazionali prevalgano al di sopra dei desideri di molti politici e statisti angosciati davanti al fenomeno. Non hanno la minore fiducia nel proprio sistema del quale sono nati come uomini pubblici.
Quando un paese lascia dietro l'analfabetismo, sa leggere e scrivere, e possiede un minimo indispensabile di conoscenze per vivere e produrre onestamente, gli mancherebbe vincere ancora la peggiore forma d’ignoranza della nostra epoca: l'analfabetismo economico. Solo così potremmo sapere quello che sta succedendo nel mondo.
Fidel Castro Ruz
26 ottobre 2008
17:15
martedì 28 ottobre 2008
Contro la scuola del capitale
CONTRO LA SCUOLA DEL CAPITALE
PENSIAMO IL FUTURO PER TRASFORMARE IL PRESENTE
Grazie alle mobilitazioni del mondo della scuola (studenti, lavoratori, insegnanti) i punti fondamentali del “decreto Gelmini” e della Finanziaria per il 2009 sono ormai abbastanza noti: nella scuola primaria maestro unico, taglio del tempo scuola, reintroduzione del grembiule e del voto di condotta, eliminazione delle scuole con meno di 50 alunni…; nelle università, drastica riduzione del fondo di finanziamento ordinario, blocco del turn-over (ovvero riduzione del personale docente e non), progressiva trasformazione in fondazioni semi-private...
Meno insegnanti di sostegno, meno Centri per l’Istruzione degli Adulti, meno maestri, meno tempo pieno, meno ore di scuola ai professionali, meno collaboratori scolastici e personale di segreteria, meno ricercatori, meno personale docente e non docente... Tutto questo, combinato con il vertiginoso aumento delle spese di iscrizione e per i libri di testo, non può produrre che un risultato: meno studenti, specialmente nei livelli superiori della formazione, per assecondare il vecchio sogno dei preti e dei padroni, infranto dalle lotte dal ’68 in poi: istruzione di base (e di pessima qualità) “per tutti”, istruzione specialistica solo per i figli dei ricchi.
I figli dei lavoratori immigrati saranno rinchiusi in “classi-ghetto speciali” per permettere ai “nostri ragazzi” di seguire “senza problemi” i programmi della scuola-azienda (la scuola come luogo di educazione alla “cultura” dell’apartheid). I bambini con disagio saranno, ovviamente, abbandonati a loro stessi, in omaggio a quel darwinismo sociale truccato che permette solo ai “sani”, agli “equilibrati” e, soprattutto, ai “figli di buona famiglia” ben sponsorizzati e che possono permettersi i “rinforzini CEPU”, di prepararsi ad ereditare il ruolo sociale dei propri padri.
In una società statica con uno dei più bassi tassi di mobilità sociale ed economica del mondo questo significa blindare ancora di più le classi sociali ed anzi trasformare sempre di più la scuola in strumento per la riproduzione del modo di produzione capitalistico (come avrebbe detto il filosofo francese Louis Althusser, la scuola come “apparato ideologico di Stato”). La Costituzione scritta dopo la Resistenza voleva rimuovere gli ostacoli materiali ed economici che dividono le persone; questa scuola ne aggiunge altri ancora.
Ecco perché contrastare il decreto 133 non basta (tanto più sostituendo la forma conflittuale dell’occupazione-autogestione con la forma un po’ mediatica delle lezioni in piazza), ma dobbiamo mettere in discussione il meccanismo - ben più devastante delle singole misure - secondo cui la scuola tende ad essere sempre più “corso di formazione” per masse giovanili da parcheggiare prima e da inserire poi con le minori contraddizioni possibili nella società capitalistica moderna (ma solo ipoteticamente, perché poi il futuro è per la maggior parte precarietà sociale a tutti i livelli); dobbiamo mettere in discussione il “dogma apparente” di una società caratterizzata dalla progressiva polarizzazione sociale: i ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri (cfr. OECD, Growing unequal?, 2008).
Il problema non è solo il decreto Gelmini, ma il fatto che i figli dei ricchi potranno permettersi di frequentare “con profitto” (termine poco scolastico e molto aziendaleggiante) scuola e università sempre più private e privatizzate - peraltro pagate con i soldi che vengono sottratti a quella pubblica - per poi andare ad occupare il posto cui sono destinati nell’organigramma sociale, mentre i figli di chi è costretto a contrarre mutui e prestiti usurai per tentare di mantenere le proprie condizioni di vita, devono rassegnarsi a frequentare “scuole parcheggio” pronte a sfornare, al massimo, “accettabile” manovalanza da sfruttare come e quando serve.
Noi non pensiamo certo che la scuola possa essere strumento di emancipazione sociale e culturale. E non pensiamo che possa essere, in una società come questa, neppure luogo di educazione; al massimo, di istruzione. Il noto filosofo (e professore universitario) Umberto Galimberti definisce un po’ provocatoriamente la scuola come il “principale elemento di devianza giovanile” (cfr. L’ospite inquietante, 2007), ma questa è solo una faccia della medaglia perché è l’intera società capitalistica che produce “devianza” e disagio, giovanile e non.
Eppure, attraverso le lotte dei lavoratori e degli studenti, alcune importanti conquiste erano state realizzate e queste conquiste ci vengono sottratte una dopo l’altra, una “riforma” dopo l’altra; dalla “Ruberti” - contro cui nacque il movimento studentesco della Pantera nel ’90 - fino al “decreto Gelmini”, passando attraverso la “riforma” Berlinguer e quella della Moratti, tutti i passaggi che si sono susseguiti negli ultimi 20 anni hanno avuto sempre lo stesso filo conduttore: asservire sempre di più la formazione dei giovani agli interessi capitalistici delle imprese, distruggere la scuola pubblica per favorire (sostenendola anche economicamente) quella privata. Da questo punto di vista le fondazioni della Gelmini sono in perfetta continuità con l’“autonomia finanziaria” (ovvero la sponsorizzazione della didattica) di Ruberti e di Berlinguer.
Nelle mobilitazioni di queste settimane gli studenti dicono “noi la crisi non la paghiamo” dimostrando di aver compreso che i tagli alla scuola e all’università hanno un duplice obbiettivo: da un lato, rendere l’istruzione ancora più selettiva dal punto di vista di classe e, dall’altro, risparmiare risorse da destinare al salvataggio dei pescecani della finanza, in preda al panico dopo il devastante tracollo di Wall Street le cui conseguenze sono ancora tutte “da scoprire”. Gli studenti e i lavoratori dicono no: le risorse che dovrebbero essere utilizzate per la scuola e l’università pubblica non possono essere usate per pagare la crisi capitalistica in atto (con il decreto 133 si prevedono tagli per 7,8 miliardi di euro), per salvare banche, finanziarie, assicurazioni, imprese… che in questi anni si sono riempite le tasche con i proventi del sudore e - letteralmente - del sangue dei lavoratori (le statistiche ufficiali, cioè per difetto, parlano di 1.300 morti sul lavoro all’anno).
Gli studenti dicono bene, ma senza mettere in campo una forza di lotta indipendente e di classe, invece, saranno proprio gli “ultimi della società” (economicamente parlando) a pagare: come sempre. E di certo non pagheranno gli squali della finanza e neppure i politici e i sindacalisti che con questi squali gestiscono i consigli di amministrazione di Fondi Pensione Integrativi pieni di quei titoli spazzatura che oggi tutti “scoprono” essere pericolosi (già, ma mentre noi denunciavamo solitariamente questo pericolo, tra il 2006 e il 2007 i governi Berlusconi e Prodi - appoggiati da tutti i partiti dal PRC ad AN e da tutti i sindacati dalla CGIL all’UGL, inventavano la truffa del silenzio-assenso per scippare il TFR dei lavoratori e indirizzarlo ai FPI).
I giovani sono stati educati per anni al qualunquismo, al consumismo, al “menefreghismo” da programmi televisivi insulsi e dal senso di impotenza di genitori piegati dallo squallore di una società marcia che ai figli dei lavoratori non offre nessuna possibilità, né dal punto di vista materiale, né dal punto di vista culturale, una società in cui ci spingono l’uno contro l’altro per meglio ammaestrarci tutti quanti; una società - ci dicono – in cui non c’è più niente per cui valga la pena di lottare. La “storia è finita”, le leggi del capitalismo hanno vinto. Punto e basta, tanto vale adattarsi. E invece la lotta torna prepotentemente sulla scena, con mille motivazioni e un milione di strade possibili e inesplorate. Ma senza mettersi in cammino nessuna mèta può essere raggiunta. Per questo, senza enfasi, ma con fiducia, salutiamo e sosteniamo la mobilitazione degli studenti e dei lavoratori della scuola, sapendo però ben distinguere - guai a non farlo - tra chi si muove solo per sgambettare Berlusconi e spianare la strada al ritorno dei propri padrini centro-sinistri-arcobaleni (che ormai sappiamo bene di che pasta siano fatti) e chi invece si mobilita in buona fede per difendere la scuola dall’ennesimo attacco.
A questi giovani ragazzi genuini - e non agli altri - diciamo che la “posta” in gioco è molto più alta di questo o quel governo, di questa o quest’altra “riforma”: la posta in gioco è il futuro. Ed è proprio dal futuro che dobbiamo partire per poter trasformare il presente.
Non basta unirsi sul “cosa non vogliamo” se non si è capaci di pensare ciò che “vogliamo”. Noi non vogliamo la “Gelmini”, ma neppure la “Berlinguer”. Non vogliamo la legge Biagi, ma neppure il Pacchetto Treu. Non vogliamo l’intervento militare in Iraq, ma neppure quello in Jugoslavia o in Afghanistan. Non vogliamo la Bossi-Fini, ma neppure la Turco-Napolitano. Non vogliamo questo o l’altro governo di guerra e dei padroni. Noi non vogliamo un nuovo governo, vogliamo una nuova società.
Non vogliamo un’unità generica, astratta, impolitica o peggio ancora “bipartizan”, degli studenti in quanto Soggetto. Gli Studenti con la “S” maiuscola non esistono e così neppure gli Insegnanti. Esistono i proletari che studiano e i proletari che lavorano. Vogliamo l’unità degli studenti proletari con i lavoratori precari, dei lavoratori precari con quelli più “garantiti”, degli italiani con gli immigrati, del Nord con il Sud…; vogliamo unire ciò che il padrone cerca ogni giorno e in ogni modo di dividere.
E’ meglio per i figli dei lavoratori poter accedere ad una scuola di regime piuttosto che non poter accedere ad alcuna scuola? Certo, è ovvio, e questo è anche il motivo per cui difendiamo ogni trincea e ci battiamo, come lavoratori, precari e studenti contro il decreto 133. Ma questa, per noi, è solo una tappa di una battaglia più generale che non sarà più contro un decreto o l’altro, ma contro un intero sistema sociale e politico che costringe alla fame, alla guerra, alla morte… miliardi di esseri umani.
Un diritto non è un privilegio; un diritto, per essere tale, deve essere universale. Ce lo insegnano persino le rivoluzioni borghesi. E allora, come lavoratori e figli di lavoratori, lottiamo per il nostro diritto ad una scuola pubblica, di massa, il più possibile indipendente dagli interessi economici e culturali del capitalismo, ma anche per la nostra emancipazione sociale in quanto classe internazionale, lottiamo per la costruzione di una società in cui non ci siano più ricchi e poveri, potenti e sfruttati; una società di liberi ed eguali.
Ottobre 2008
PRIMOMAGGIOFoglio per il collegamento tra lavoratori, precari, disoccupati
WEB: http://xoomer.virgilio.it/pmwebEMAIL: primomaggio.info@virgilio.it
Redazione del Veneto:
Piazzetta S.Gaetano 1, Schio (VI) EMAIL primomaggio.veneto@alice.it
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PENSIAMO IL FUTURO PER TRASFORMARE IL PRESENTE
Grazie alle mobilitazioni del mondo della scuola (studenti, lavoratori, insegnanti) i punti fondamentali del “decreto Gelmini” e della Finanziaria per il 2009 sono ormai abbastanza noti: nella scuola primaria maestro unico, taglio del tempo scuola, reintroduzione del grembiule e del voto di condotta, eliminazione delle scuole con meno di 50 alunni…; nelle università, drastica riduzione del fondo di finanziamento ordinario, blocco del turn-over (ovvero riduzione del personale docente e non), progressiva trasformazione in fondazioni semi-private...
Meno insegnanti di sostegno, meno Centri per l’Istruzione degli Adulti, meno maestri, meno tempo pieno, meno ore di scuola ai professionali, meno collaboratori scolastici e personale di segreteria, meno ricercatori, meno personale docente e non docente... Tutto questo, combinato con il vertiginoso aumento delle spese di iscrizione e per i libri di testo, non può produrre che un risultato: meno studenti, specialmente nei livelli superiori della formazione, per assecondare il vecchio sogno dei preti e dei padroni, infranto dalle lotte dal ’68 in poi: istruzione di base (e di pessima qualità) “per tutti”, istruzione specialistica solo per i figli dei ricchi.
I figli dei lavoratori immigrati saranno rinchiusi in “classi-ghetto speciali” per permettere ai “nostri ragazzi” di seguire “senza problemi” i programmi della scuola-azienda (la scuola come luogo di educazione alla “cultura” dell’apartheid). I bambini con disagio saranno, ovviamente, abbandonati a loro stessi, in omaggio a quel darwinismo sociale truccato che permette solo ai “sani”, agli “equilibrati” e, soprattutto, ai “figli di buona famiglia” ben sponsorizzati e che possono permettersi i “rinforzini CEPU”, di prepararsi ad ereditare il ruolo sociale dei propri padri.
In una società statica con uno dei più bassi tassi di mobilità sociale ed economica del mondo questo significa blindare ancora di più le classi sociali ed anzi trasformare sempre di più la scuola in strumento per la riproduzione del modo di produzione capitalistico (come avrebbe detto il filosofo francese Louis Althusser, la scuola come “apparato ideologico di Stato”). La Costituzione scritta dopo la Resistenza voleva rimuovere gli ostacoli materiali ed economici che dividono le persone; questa scuola ne aggiunge altri ancora.
Ecco perché contrastare il decreto 133 non basta (tanto più sostituendo la forma conflittuale dell’occupazione-autogestione con la forma un po’ mediatica delle lezioni in piazza), ma dobbiamo mettere in discussione il meccanismo - ben più devastante delle singole misure - secondo cui la scuola tende ad essere sempre più “corso di formazione” per masse giovanili da parcheggiare prima e da inserire poi con le minori contraddizioni possibili nella società capitalistica moderna (ma solo ipoteticamente, perché poi il futuro è per la maggior parte precarietà sociale a tutti i livelli); dobbiamo mettere in discussione il “dogma apparente” di una società caratterizzata dalla progressiva polarizzazione sociale: i ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri (cfr. OECD, Growing unequal?, 2008).
Il problema non è solo il decreto Gelmini, ma il fatto che i figli dei ricchi potranno permettersi di frequentare “con profitto” (termine poco scolastico e molto aziendaleggiante) scuola e università sempre più private e privatizzate - peraltro pagate con i soldi che vengono sottratti a quella pubblica - per poi andare ad occupare il posto cui sono destinati nell’organigramma sociale, mentre i figli di chi è costretto a contrarre mutui e prestiti usurai per tentare di mantenere le proprie condizioni di vita, devono rassegnarsi a frequentare “scuole parcheggio” pronte a sfornare, al massimo, “accettabile” manovalanza da sfruttare come e quando serve.
Noi non pensiamo certo che la scuola possa essere strumento di emancipazione sociale e culturale. E non pensiamo che possa essere, in una società come questa, neppure luogo di educazione; al massimo, di istruzione. Il noto filosofo (e professore universitario) Umberto Galimberti definisce un po’ provocatoriamente la scuola come il “principale elemento di devianza giovanile” (cfr. L’ospite inquietante, 2007), ma questa è solo una faccia della medaglia perché è l’intera società capitalistica che produce “devianza” e disagio, giovanile e non.
Eppure, attraverso le lotte dei lavoratori e degli studenti, alcune importanti conquiste erano state realizzate e queste conquiste ci vengono sottratte una dopo l’altra, una “riforma” dopo l’altra; dalla “Ruberti” - contro cui nacque il movimento studentesco della Pantera nel ’90 - fino al “decreto Gelmini”, passando attraverso la “riforma” Berlinguer e quella della Moratti, tutti i passaggi che si sono susseguiti negli ultimi 20 anni hanno avuto sempre lo stesso filo conduttore: asservire sempre di più la formazione dei giovani agli interessi capitalistici delle imprese, distruggere la scuola pubblica per favorire (sostenendola anche economicamente) quella privata. Da questo punto di vista le fondazioni della Gelmini sono in perfetta continuità con l’“autonomia finanziaria” (ovvero la sponsorizzazione della didattica) di Ruberti e di Berlinguer.
Nelle mobilitazioni di queste settimane gli studenti dicono “noi la crisi non la paghiamo” dimostrando di aver compreso che i tagli alla scuola e all’università hanno un duplice obbiettivo: da un lato, rendere l’istruzione ancora più selettiva dal punto di vista di classe e, dall’altro, risparmiare risorse da destinare al salvataggio dei pescecani della finanza, in preda al panico dopo il devastante tracollo di Wall Street le cui conseguenze sono ancora tutte “da scoprire”. Gli studenti e i lavoratori dicono no: le risorse che dovrebbero essere utilizzate per la scuola e l’università pubblica non possono essere usate per pagare la crisi capitalistica in atto (con il decreto 133 si prevedono tagli per 7,8 miliardi di euro), per salvare banche, finanziarie, assicurazioni, imprese… che in questi anni si sono riempite le tasche con i proventi del sudore e - letteralmente - del sangue dei lavoratori (le statistiche ufficiali, cioè per difetto, parlano di 1.300 morti sul lavoro all’anno).
Gli studenti dicono bene, ma senza mettere in campo una forza di lotta indipendente e di classe, invece, saranno proprio gli “ultimi della società” (economicamente parlando) a pagare: come sempre. E di certo non pagheranno gli squali della finanza e neppure i politici e i sindacalisti che con questi squali gestiscono i consigli di amministrazione di Fondi Pensione Integrativi pieni di quei titoli spazzatura che oggi tutti “scoprono” essere pericolosi (già, ma mentre noi denunciavamo solitariamente questo pericolo, tra il 2006 e il 2007 i governi Berlusconi e Prodi - appoggiati da tutti i partiti dal PRC ad AN e da tutti i sindacati dalla CGIL all’UGL, inventavano la truffa del silenzio-assenso per scippare il TFR dei lavoratori e indirizzarlo ai FPI).
I giovani sono stati educati per anni al qualunquismo, al consumismo, al “menefreghismo” da programmi televisivi insulsi e dal senso di impotenza di genitori piegati dallo squallore di una società marcia che ai figli dei lavoratori non offre nessuna possibilità, né dal punto di vista materiale, né dal punto di vista culturale, una società in cui ci spingono l’uno contro l’altro per meglio ammaestrarci tutti quanti; una società - ci dicono – in cui non c’è più niente per cui valga la pena di lottare. La “storia è finita”, le leggi del capitalismo hanno vinto. Punto e basta, tanto vale adattarsi. E invece la lotta torna prepotentemente sulla scena, con mille motivazioni e un milione di strade possibili e inesplorate. Ma senza mettersi in cammino nessuna mèta può essere raggiunta. Per questo, senza enfasi, ma con fiducia, salutiamo e sosteniamo la mobilitazione degli studenti e dei lavoratori della scuola, sapendo però ben distinguere - guai a non farlo - tra chi si muove solo per sgambettare Berlusconi e spianare la strada al ritorno dei propri padrini centro-sinistri-arcobaleni (che ormai sappiamo bene di che pasta siano fatti) e chi invece si mobilita in buona fede per difendere la scuola dall’ennesimo attacco.
A questi giovani ragazzi genuini - e non agli altri - diciamo che la “posta” in gioco è molto più alta di questo o quel governo, di questa o quest’altra “riforma”: la posta in gioco è il futuro. Ed è proprio dal futuro che dobbiamo partire per poter trasformare il presente.
Non basta unirsi sul “cosa non vogliamo” se non si è capaci di pensare ciò che “vogliamo”. Noi non vogliamo la “Gelmini”, ma neppure la “Berlinguer”. Non vogliamo la legge Biagi, ma neppure il Pacchetto Treu. Non vogliamo l’intervento militare in Iraq, ma neppure quello in Jugoslavia o in Afghanistan. Non vogliamo la Bossi-Fini, ma neppure la Turco-Napolitano. Non vogliamo questo o l’altro governo di guerra e dei padroni. Noi non vogliamo un nuovo governo, vogliamo una nuova società.
Non vogliamo un’unità generica, astratta, impolitica o peggio ancora “bipartizan”, degli studenti in quanto Soggetto. Gli Studenti con la “S” maiuscola non esistono e così neppure gli Insegnanti. Esistono i proletari che studiano e i proletari che lavorano. Vogliamo l’unità degli studenti proletari con i lavoratori precari, dei lavoratori precari con quelli più “garantiti”, degli italiani con gli immigrati, del Nord con il Sud…; vogliamo unire ciò che il padrone cerca ogni giorno e in ogni modo di dividere.
E’ meglio per i figli dei lavoratori poter accedere ad una scuola di regime piuttosto che non poter accedere ad alcuna scuola? Certo, è ovvio, e questo è anche il motivo per cui difendiamo ogni trincea e ci battiamo, come lavoratori, precari e studenti contro il decreto 133. Ma questa, per noi, è solo una tappa di una battaglia più generale che non sarà più contro un decreto o l’altro, ma contro un intero sistema sociale e politico che costringe alla fame, alla guerra, alla morte… miliardi di esseri umani.
Un diritto non è un privilegio; un diritto, per essere tale, deve essere universale. Ce lo insegnano persino le rivoluzioni borghesi. E allora, come lavoratori e figli di lavoratori, lottiamo per il nostro diritto ad una scuola pubblica, di massa, il più possibile indipendente dagli interessi economici e culturali del capitalismo, ma anche per la nostra emancipazione sociale in quanto classe internazionale, lottiamo per la costruzione di una società in cui non ci siano più ricchi e poveri, potenti e sfruttati; una società di liberi ed eguali.
Ottobre 2008
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Don't forget it (non dimentichiamola)
Sembra che l'onda puzzolente dei mesi scorsi provocata dal fenomeno"munnezza" costruito ad arte da piu' parti si sia diradata per lasciare il posto ad apparenti problematiche piu' preoccupanti come la presunta recessione economica. Ma il tema della salute pubblica in Campania e' sempre al primo posto e questo non dobbiamo dimenticarlo perche' il nostro vero nemico da sconfiggere non e' la camorra ne'parti di uno stato colluso e cinicamente programmatore di scempi, ma la nostra indifferenza, la nostra assenza, il nostro silenzio. Quest'anno si doveva approvare la legge della class action che permette a gruppi di cittadini di far valere le proprie ragioni, di chiedere al governo centrale che società, multinazionali, enti e regioni si facciano garanti di proteggere il territorio e la salute dei suoi abitanti, pena la possibilità di risarcire la collettività di tutti i danni arrecati a persone e cose. Non dimentichiamoci che noi paghiamo l'inefficienza di un gruppo che sta distruggendo il nostro futuro e la nostra salute. politici, amministratori e pedine di un gioco che vede milioni di euro in gioco elargiti dalle casse della comunità europea . Ormai non abbiamo piu' bisogno di un politico che ci rappresenti ma di magistratura e forze dell'ordine spinti da noi cittadini ben informati sui fatti. Roghi di rifiuti tossici, discariche non a norma che lasciano trapelare i loro veleni nel sottosuolo e nell'acqua che beviamo, aree protette scelte per farvi discariche, aree destinate a valorizzare quelle terre con progetti di recupero per insediamenti ecosostenibili declassate per riempirle di veleni, aree boschive distrutte metodicamente da mafie del fuoco dove si scopre che i canadair sono gestiti da societa' private e titolate in borsa e che per un'ora di spegnimento prendono quasi quindicimila euro. Tutto questo non e' un disegno criminale di un qualche gruppo camorristico affamato di ricchezza ma bensì e' lo stato o almeno parti di esso che non fanno per niente gli interessi della collettività anzi ci stanno distruggendo la salute e l'ambiente e la beffa e' che una volta ammalati troviamo le asl a "ridarci" la salute con cure intensive e dispendiose,vedi gli scandali delle asl di Forli' e di aree del napoletano dove le ceneri tossiche venivano date ai consorzi agricoli spacciandole per concimi con l'avallo di funzionari corrotti e poi dopo un po' molti cittadini si ammalavano di cancro per aver mangiato i prodotti agricoli concimati con quelle ceneri e ricorrevano alle strutture pubbliche che li curavano. Cosa aspettiamo per creare una mega denuncia allo stato? C L A S S A c t i o n
nikonline
http://it.truveo.com/Lemergenza-che-non-cera-Parte-1-di-2/id/716581862
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Ma Dio è maschio?
M
Innanzitutto chiedo perdono per aver chiamato in causa l’Altissimo per queste terrene quisquilie, e d’altronde non è colpa Sua se gli uomini continuano a peccare in Suo nome.
Sarà che una donna sola europea e per giunta bionda, in Marocco non ha certo vita facile, certo, nemmeno è una tragedia, c’è sempre di peggio, ma insomma non è esattamente un relax. Penso alla questione trita e ritrita del velo. Da buona arabista ho sempre ingaggiato battaglie verbali per difendere le società a maggioranza islamica dai facili stereotipi che vengono loro affibbiati. Finché, camminando da sola per la strada, ho capito. Una cosa semplicissima, non ci voleva tanto ad arrivarci: io stessa ho desiderato in molte occasioni di avere la chioma “tentatrice” occultata sotto un velo, di più, spesso ho desiderato nascondere il mio corpo del peccato sotto un sacco di patate. Una libera scelta, sì, ma in questo caso dettata dalla necessità di proteggermi dagli sguardi lascivi che mi accompagnano ad ogni passo, per non parlare dei gemiti disgustosi che a volte mi vengono rivolti. E sì, perché la mia testa scoperta, i miei capelli biondi – sebbene raccolti -, il fatto di andare in giro da sola e non essere sposata alla veneranda età di 26 anni, sono un segno inequivocabile di disponibilità. Più o meno come la retorica sulle donne che sono state violentate perché “mostravano un atteggiamento provocante”. E sia. Leggo nel Corano che in paradiso ad ogni beato verranno fornite in dotazione settanta huri, fanciulle bellissime che restano vergini in eterno, malgrado indugino con generosità nelle delizie d’amore a favore del beato che è stato loro assegnato. Quindi non solo disponibili, ma pure vergini. Una volta chiesi delucidazioni a un uomo musulmano e mi disse che Dio ha pensato a tutto: in paradiso infatti le donne non saranno gelose dei loro mariti terreni e gioiranno per i loro piaceri. Beh, a Napoli si direbbe “curnut’ e mazziat’”. Che Dio mi perdoni di nuovo se oso citare il libro sacro e lungi da me l’intenzione di fornire un’interpretazione letteralista del Corano, sarebbe un disastro. La mia intenzione è quella di darne un’interpretazione da una prospettiva di genere, riferita a come certe idee vengano recepite dalla mente dell’uomo maschio, e il passo del Corano è solo un esempio. E se bisogna urlare, allora urliamo. Qualcuno mi spiega perché perfino in certi paradisi la figura femminile deve essere non un soggetto, ma un oggetto a uso e consumo dell’uomo maschio? Perché la parola Dio è al maschile e dove sono I settanta huri maschi che ci sollazzeranno per l’eternità? Solo uno stupido esempio, e chiedo ancora perdono all’Onnipotente perché credo in Lui, ma non nelle sue creature, molto spesso. Immagino l’età dell’oro – forse mai esistita, ma ci piace sognare - della Madre Terra, quando la divinità era femmina e le donne potevano danzare nei boschi senza essere accusate di stregoneria. Quando i loro ventri non erano trattati come macchine di produzione da tenere sotto stretto controllo, ma come scrigni preziosi cui rendere grazie per il fatto di custodire la Vita. Bah, discorsi superati, vecchi resti riesumati dagli anni ’60, ormai non fanno più effetto a nessuno, almeno a casa nostra.
Il pensiero torna a Tamait Ofella, un villaggio poverissmo nella campagna di Agadir che non è segnato nemmeno sulle carte. Sono con Rachida, la giovane assistente sociale responsabile del progetto “Petites bonnes”, le bambine dai 7 anni di età che vengono “vendute” – è questo il termine impiegato dagli intermediari – a ricche famiglie di città per svolgere il lavoro domestico. Spesso le madri sono del tutto ignare dei diritti dell’infanzia e non sanno che le bambine subiranno abusi di ogni genere, dallo sfruttamento fino alla violenza sessuale e ai maltrattamenti, come le bruciature di sigaretta. Le più sfortunate tra loro potranno rimanere incinte in seguito a violenza, diventeranno ragazze-madri e saranno rifiutate dalla famiglia e marchiate dalla società. Parliamo con l’imam della moschea, lui è l’unico che ha il potere di risvegliare le coscienze nella comunità. Mi permette di entrare nella moschea, purché non abbia le mestruazioni. Già, il sangue è tabù, guarda caso le donne per natura si ritrovano ad essere titolari di una delle maggiori impurità.
Incontriamo le donne del villaggio, alcune timide, altre più esuberanti, ma tutte contente di ricevere l’ospite straniera che viene da lontano per conoscere la vita di Tamait Ofella. Tutte sorridono, mi osservano, chi mi regala una mela, chi un mazzo di basilico, mi regalano ciò che hanno. La più anziana mi ispira una certa deferenza, era analfabeta fino a poco tempo fa, mi mostra il suo quaderno, lo sfoglio, semplici esercizi di lingua araba come quelli che svolgevo al primo anno di università, ma mi mostro sinceramente ammirata: non è facile apprendere a scrivere in tarda età, agli analfabeti bisogna insegnare come si tiene in mano una penna e si inizia con il far tracciare delle semplici linee rette. Mi spiega che sa riconoscere le parole scritte ma a volte le manca il collegamento tra l’idea e la forma grafica. Pazienza, le dico, migliorerà col tempo, inchallah. Nell’associazione nella quale svolgo il mio stage ho incontrato donne che venivano a chiedere aiuto perché i loro padri, mariti e fratelli impedivano loro di frequentare i corsi di alfabetizzazione. Ormai sono “vecchie”, si sono sposate e hanno fatto figli. La loro missione sulla terra è compiuta, perché chiedere di più? Già.
Arrivano i bambini della scuola, tutti bellissimi naturalmente, e mi fanno una gran tenerezza, poi guardo le bambine e... per un momento un dubbio mi assale. Forse alcuni tra quei bambini verranno strappati troppo presto alla loro innocenza? Forse qualcuno di loro un giorno potrebbe diventare l’aguzzino di una delle sue antiche compagne di gioco? Scaccio immediatamente l’idea, i bambini sono solo bambini, sta a noi cercare di spingerli nella giusta direzione affinché non cadano vittime della miseria e delle disfunzioni della società.
Una delle donne, sulla quarantina, mi mostra il piccolo forno di pietra in cui si cuoce il pane. Credo che ai tempi di Cristo il pane si facesse così, e così si fa ancora a Tamait Ofella. E in effetti quel pane ha un sapore arcaico come non l’ho mai provato, credo che sia l’archetipo stesso del pane. Poi la donna mi mostra con orgoglio il suo “appartamento”: una capanna di argilla distribuita intorno ad un cortile, le stanze prive di mobili, solo qualche stuoia, una bomboletta a gas per cucinare e altre povere cose. Ma lei in quel momento è la Signora del Palazzo ed io sono onorata della sua ospitalità. Continua a sorridere, ma i suoi occhi parlano d’altro, i pensieri non la abbandonano un attimo. Ma la donna che mi ha conquistato all’istante è Khaddouja. Sui 35 anni, in carne, un sorriso che – come descriverlo? Lei non ride con la bocca, ma tutto il suo viso si illumina, un viso aperto e pieno come un sole. Pranzo a casa sua, ha preparato un’ottima tajine, mi congratulo, “l’ho fatta in fretta, giusto 5 minuti”- replica con orgoglio dissimulato. Continua ad incitarmi, “mangia, mangia!”, e mi porge i bocconi migliori del grande piatto comune. Mangio di gusto e quanto più posso, anche se alla fine del pasto mi rimprovera, “ma non hai mangiato niente”. Pazienza, non è mai abbastanza. Alla fine della giornata mi regala un dolce e mi concede la ricetta scritta in arabo, il suo piccolo segreto. Mi regala anche un centrotavola fatto a mano – la tessitura è l’unica attività economica che queste donne possano svolgere. Ringrazio di cuore, non ho mai provato un affetto così istantaneo per una donna sconosciuta. La sera stessa mi manda un messaggio sgrammaticato – lei è berberofona, conosce i rudimenti dell’arabo e appena qualche frase in francese. “Salut. Commentvas.tu? Khaddouja, association Iqra. Bonne nuit”. Le rispondo immediatamente, le dico che resteremo in contatto, che è stato un vero piacere conoscerla. Le rispondo con molte più parole del necessario, non so se mi capirà, ma voglio che il messaggio sia chiaro.
Non lo dice Khaddouja, ma io tra le righe di quel messaggio leggo un tacito invito... Non ti dimenticare di noi, adesso tu sai che esistiamo, e se mai potessi fare anche solo una piccolezza per aiutarci, fallo.
Signori miei, vi sembrerà che ho raccontato cose risapute, anzi, nel mondo succede di peggio e non lo metto in dubbio. Non sono una femminista, rifuggo le ideologie che generano solo più conflitti, ma quando constato che la dignità umana non è rispettata, allora mi schiero con i vinti. Con le donne, le bambine e i bambini, in questo caso. Quello che ho urlato qui con voi questa sera a proposito del dominio dell’uomo maschio, a sua volta vittima della miseria e dell’ignoranza, è per Khaddouja e le donne di Tamait Ofella. Forse è tardi per loro, ma il mio desiderio è che almeno le loro figlie o nipoti possano riscattare col tempo il posto che spetta loro nel mondo. Alla faccia del patriarcato, in questo caso.
Innanzitutto chiedo perdono per aver chiamato in causa l’Altissimo per queste terrene quisquilie, e d’altronde non è colpa Sua se gli uomini continuano a peccare in Suo nome.
Sarà che una donna sola europea e per giunta bionda, in Marocco non ha certo vita facile, certo, nemmeno è una tragedia, c’è sempre di peggio, ma insomma non è esattamente un relax. Penso alla questione trita e ritrita del velo. Da buona arabista ho sempre ingaggiato battaglie verbali per difendere le società a maggioranza islamica dai facili stereotipi che vengono loro affibbiati. Finché, camminando da sola per la strada, ho capito. Una cosa semplicissima, non ci voleva tanto ad arrivarci: io stessa ho desiderato in molte occasioni di avere la chioma “tentatrice” occultata sotto un velo, di più, spesso ho desiderato nascondere il mio corpo del peccato sotto un sacco di patate. Una libera scelta, sì, ma in questo caso dettata dalla necessità di proteggermi dagli sguardi lascivi che mi accompagnano ad ogni passo, per non parlare dei gemiti disgustosi che a volte mi vengono rivolti. E sì, perché la mia testa scoperta, i miei capelli biondi – sebbene raccolti -, il fatto di andare in giro da sola e non essere sposata alla veneranda età di 26 anni, sono un segno inequivocabile di disponibilità. Più o meno come la retorica sulle donne che sono state violentate perché “mostravano un atteggiamento provocante”. E sia. Leggo nel Corano che in paradiso ad ogni beato verranno fornite in dotazione settanta huri, fanciulle bellissime che restano vergini in eterno, malgrado indugino con generosità nelle delizie d’amore a favore del beato che è stato loro assegnato. Quindi non solo disponibili, ma pure vergini. Una volta chiesi delucidazioni a un uomo musulmano e mi disse che Dio ha pensato a tutto: in paradiso infatti le donne non saranno gelose dei loro mariti terreni e gioiranno per i loro piaceri. Beh, a Napoli si direbbe “curnut’ e mazziat’”. Che Dio mi perdoni di nuovo se oso citare il libro sacro e lungi da me l’intenzione di fornire un’interpretazione letteralista del Corano, sarebbe un disastro. La mia intenzione è quella di darne un’interpretazione da una prospettiva di genere, riferita a come certe idee vengano recepite dalla mente dell’uomo maschio, e il passo del Corano è solo un esempio. E se bisogna urlare, allora urliamo. Qualcuno mi spiega perché perfino in certi paradisi la figura femminile deve essere non un soggetto, ma un oggetto a uso e consumo dell’uomo maschio? Perché la parola Dio è al maschile e dove sono I settanta huri maschi che ci sollazzeranno per l’eternità? Solo uno stupido esempio, e chiedo ancora perdono all’Onnipotente perché credo in Lui, ma non nelle sue creature, molto spesso. Immagino l’età dell’oro – forse mai esistita, ma ci piace sognare - della Madre Terra, quando la divinità era femmina e le donne potevano danzare nei boschi senza essere accusate di stregoneria. Quando i loro ventri non erano trattati come macchine di produzione da tenere sotto stretto controllo, ma come scrigni preziosi cui rendere grazie per il fatto di custodire la Vita. Bah, discorsi superati, vecchi resti riesumati dagli anni ’60, ormai non fanno più effetto a nessuno, almeno a casa nostra.
Il pensiero torna a Tamait Ofella, un villaggio poverissmo nella campagna di Agadir che non è segnato nemmeno sulle carte. Sono con Rachida, la giovane assistente sociale responsabile del progetto “Petites bonnes”, le bambine dai 7 anni di età che vengono “vendute” – è questo il termine impiegato dagli intermediari – a ricche famiglie di città per svolgere il lavoro domestico. Spesso le madri sono del tutto ignare dei diritti dell’infanzia e non sanno che le bambine subiranno abusi di ogni genere, dallo sfruttamento fino alla violenza sessuale e ai maltrattamenti, come le bruciature di sigaretta. Le più sfortunate tra loro potranno rimanere incinte in seguito a violenza, diventeranno ragazze-madri e saranno rifiutate dalla famiglia e marchiate dalla società. Parliamo con l’imam della moschea, lui è l’unico che ha il potere di risvegliare le coscienze nella comunità. Mi permette di entrare nella moschea, purché non abbia le mestruazioni. Già, il sangue è tabù, guarda caso le donne per natura si ritrovano ad essere titolari di una delle maggiori impurità.
Incontriamo le donne del villaggio, alcune timide, altre più esuberanti, ma tutte contente di ricevere l’ospite straniera che viene da lontano per conoscere la vita di Tamait Ofella. Tutte sorridono, mi osservano, chi mi regala una mela, chi un mazzo di basilico, mi regalano ciò che hanno. La più anziana mi ispira una certa deferenza, era analfabeta fino a poco tempo fa, mi mostra il suo quaderno, lo sfoglio, semplici esercizi di lingua araba come quelli che svolgevo al primo anno di università, ma mi mostro sinceramente ammirata: non è facile apprendere a scrivere in tarda età, agli analfabeti bisogna insegnare come si tiene in mano una penna e si inizia con il far tracciare delle semplici linee rette. Mi spiega che sa riconoscere le parole scritte ma a volte le manca il collegamento tra l’idea e la forma grafica. Pazienza, le dico, migliorerà col tempo, inchallah. Nell’associazione nella quale svolgo il mio stage ho incontrato donne che venivano a chiedere aiuto perché i loro padri, mariti e fratelli impedivano loro di frequentare i corsi di alfabetizzazione. Ormai sono “vecchie”, si sono sposate e hanno fatto figli. La loro missione sulla terra è compiuta, perché chiedere di più? Già.
Arrivano i bambini della scuola, tutti bellissimi naturalmente, e mi fanno una gran tenerezza, poi guardo le bambine e... per un momento un dubbio mi assale. Forse alcuni tra quei bambini verranno strappati troppo presto alla loro innocenza? Forse qualcuno di loro un giorno potrebbe diventare l’aguzzino di una delle sue antiche compagne di gioco? Scaccio immediatamente l’idea, i bambini sono solo bambini, sta a noi cercare di spingerli nella giusta direzione affinché non cadano vittime della miseria e delle disfunzioni della società.
Una delle donne, sulla quarantina, mi mostra il piccolo forno di pietra in cui si cuoce il pane. Credo che ai tempi di Cristo il pane si facesse così, e così si fa ancora a Tamait Ofella. E in effetti quel pane ha un sapore arcaico come non l’ho mai provato, credo che sia l’archetipo stesso del pane. Poi la donna mi mostra con orgoglio il suo “appartamento”: una capanna di argilla distribuita intorno ad un cortile, le stanze prive di mobili, solo qualche stuoia, una bomboletta a gas per cucinare e altre povere cose. Ma lei in quel momento è la Signora del Palazzo ed io sono onorata della sua ospitalità. Continua a sorridere, ma i suoi occhi parlano d’altro, i pensieri non la abbandonano un attimo. Ma la donna che mi ha conquistato all’istante è Khaddouja. Sui 35 anni, in carne, un sorriso che – come descriverlo? Lei non ride con la bocca, ma tutto il suo viso si illumina, un viso aperto e pieno come un sole. Pranzo a casa sua, ha preparato un’ottima tajine, mi congratulo, “l’ho fatta in fretta, giusto 5 minuti”- replica con orgoglio dissimulato. Continua ad incitarmi, “mangia, mangia!”, e mi porge i bocconi migliori del grande piatto comune. Mangio di gusto e quanto più posso, anche se alla fine del pasto mi rimprovera, “ma non hai mangiato niente”. Pazienza, non è mai abbastanza. Alla fine della giornata mi regala un dolce e mi concede la ricetta scritta in arabo, il suo piccolo segreto. Mi regala anche un centrotavola fatto a mano – la tessitura è l’unica attività economica che queste donne possano svolgere. Ringrazio di cuore, non ho mai provato un affetto così istantaneo per una donna sconosciuta. La sera stessa mi manda un messaggio sgrammaticato – lei è berberofona, conosce i rudimenti dell’arabo e appena qualche frase in francese. “Salut. Commentvas.tu? Khaddouja, association Iqra. Bonne nuit”. Le rispondo immediatamente, le dico che resteremo in contatto, che è stato un vero piacere conoscerla. Le rispondo con molte più parole del necessario, non so se mi capirà, ma voglio che il messaggio sia chiaro.
Non lo dice Khaddouja, ma io tra le righe di quel messaggio leggo un tacito invito... Non ti dimenticare di noi, adesso tu sai che esistiamo, e se mai potessi fare anche solo una piccolezza per aiutarci, fallo.
Signori miei, vi sembrerà che ho raccontato cose risapute, anzi, nel mondo succede di peggio e non lo metto in dubbio. Non sono una femminista, rifuggo le ideologie che generano solo più conflitti, ma quando constato che la dignità umana non è rispettata, allora mi schiero con i vinti. Con le donne, le bambine e i bambini, in questo caso. Quello che ho urlato qui con voi questa sera a proposito del dominio dell’uomo maschio, a sua volta vittima della miseria e dell’ignoranza, è per Khaddouja e le donne di Tamait Ofella. Forse è tardi per loro, ma il mio desiderio è che almeno le loro figlie o nipoti possano riscattare col tempo il posto che spetta loro nel mondo. Alla faccia del patriarcato, in questo caso.
domenica 26 ottobre 2008
Effetto Saviano
Andare in giro per il mondo a raccontare, attraverso strumenti mediatici e materiale audiovisivo (documentari e concerti di musica popolare), la vitalità e l’onesta realtà quotidiana del popolo campano e specificatamente quello napoletano, è per noi un momento di gratificazione e di riscatto dalle storiche bugie divulgate sui libri di storia e ultimamente attraverso romanzi circa la nostra plurimillenaria cultura. Un gruppo di artisti che, con enorme sacrificio ed abnegazione, porta a Stoccolma un progetto culturale legato al mondo contadino in particolar modo alle espressioni fonetico- gestuali, entra in un ristorante (non per compiere una rapina ma per mangiare), entra in un panificio (non per chiedere il pizzo ma per comprare un tipico pane e degli ottimi dolci); entrambi i fatti sono collegati fra loro dalla tipica domanda “are you italian?”. Alla risposta orgogliosamente affermativa, questi artisti specificando che sono di Napoli, si sentono aggiungere, con rammarico e grande delusione, “Gomorra!”. Crediamo che ciò che è accaduto a Stoccolma sia un fatto grave inserito nella mondiale disinformazione generata dal romanzo di un certo Saviano. Il mondo, ormai, grazie al romanzo Gomorra, conosce Napoli e la Campania come “Terra di nessuno” non più come il paese del sole, della canzone, della pizza, della teatralità espressa nei quartieri da gente normale o del profumo delle ginestre.
I l maldestro uso che Saviano ne ha fatto degli atti oppure di cose che gli hanno raccontato denota la sua profonda ignoranza sulla storia della camorra altrimenti avrebbe scritto non in una sola ed esclusiva direzione; infatti chi vuole scrivere di effetti deve sapere (se non lo sa è un asino) che a stabilire gli effetti stessi sono le cause. A noi tutto ciò non sembra che Saviano ne sia al corrente.
Non ci è dato di sapere i fili del burattino Saviano da quale corrente massonico-liberale vengano tirati ma di sicuro la politica segreta ed oscura di ROMA sta continuando l’opera iniziata 150 anni fa con l’unità di Italia.
I l maldestro uso che Saviano ne ha fatto degli atti oppure di cose che gli hanno raccontato denota la sua profonda ignoranza sulla storia della camorra altrimenti avrebbe scritto non in una sola ed esclusiva direzione; infatti chi vuole scrivere di effetti deve sapere (se non lo sa è un asino) che a stabilire gli effetti stessi sono le cause. A noi tutto ciò non sembra che Saviano ne sia al corrente.
Non ci è dato di sapere i fili del burattino Saviano da quale corrente massonico-liberale vengano tirati ma di sicuro la politica segreta ed oscura di ROMA sta continuando l’opera iniziata 150 anni fa con l’unità di Italia.
Perché dico che il film GOMORRA non è un bel film
franco cuomo ha detto...
Perché dico che il film GOMORRA non è un bel film, tenterò di spiegarlo, altrimenti sembrerebbe quasi una dichiarazione per puro spirito di contraddizione e tenterò di dire anche perché del suo successo: Intanto GOMORRA non è un bel film perché rappresenta un universo orrendo, quello della camorra e del malaffare. Vorrei partire da Aristotele, che relativamente alle cose dell’arte, fa una premessa che a me sembra fondamentale, in un tempo come il nostro che ha perso ogni riferimento immaginativo rispetto al fare arte. Ho sentito da più parti dire che questo film è un film realistico:ovvero che racconta le cose così come stanno e proprio per questo in tanti lo trovano bello.Va da sé che uno pensa che è bello solo ciò che è realistico: una deformazione percettiva che finisce con l’escludere tutto quello che invece è altro dalla realtà, un segno inquietante della nostra deriva verso società autoritarie, se vogliamo dar credito - e io gliene do - a Ernest Cassirer della Filosofia delle forme simboliche. Allora bisogna cominciare col dire che questo è un modo non corretto di avvicinarsi a qualsiasi opera d’arte, sia essa cinema, arte figurativa, musica ecc. Se così fosse, noi dovremmo dire che è bella solo quell’arte che imita la realtà e qui, cito Aristotele: “Da ciò che si è detto è chiaro che il compito dell’arte non è di dire le cose avvenute o che avvengono, ma quali possono avvenire, cioè quelle possibili […] perché esiste una differenza tra lo storico e colui che produce arte: l’uno dice le cose avvenute, l’altro quali possono avvenire”.Il film ha sequenze e piani narrativi, quasi documentaristici, sembrerebbe un film neorealista e forse lo è, ma che senso ha il neorealismo oggi, quando c’è già stato un documentario di denuncia sociale su argomenti simili che si chiama Biutiful Cauntri e quando trasmissioni televisive come Report ci hanno mostrato i termini inquietanti di questa realtà, ma non come racconto filmico? Il mio punto di vista è che se Matteo Garrone facesse lo storico e non il regista come invece è, per ritornare ad Aristotele, con l’operazione che ha fatto finirebbe col tradire pure l’oggettività storica, perché i personaggi romanzati, finiscono col diventare drammaticamente epici suscitando nello spettatore anche una pietas: penso ai due balordi ( sembravano presi da un film di Pasolini) che vogliono imitare Scarface e si mettono contro il clan dei Casalesi, ma anche al ragazzino piccolo che alla fine per non tradire la banda fa uccidere Maria.Tutto il film più che sembrare una denuncia sociale, sembra un épos del male:i personaggi finiscono col sembrare eroi tragici e manca il momento neorealista, laddove il neorealismo in un momento storico in cui non esisteva un giornalismo d’inchiesta, aveva un compito ben preciso. I giornali francesi lo osannano, forse proprio per questo, anche se io credo che ormai così come viene rappresentata Napoli è diventata un esotismo, e questo è il motivo che non me lo fa piacere ed è lo stesso per cui non mi è piaciuto il libro. Oggi che il conformismo culturale è dilagante fa sembrare un film del genere come un film di denuncia sociale, ma in realtà non lo è, anzi questo film è quasi un film apologetico, ed è tutta l’operazione che è discutibile. Incuriosito dal polverone che si è formato intorno al best seller, e non amando quel genere di lettura, ho deciso di vedere il film. Da napoletano a volte ho stentato a capire cosa dicessero gli attori del film (che, per dare un tocco di credibilità in più sono stati selezionati dalla zona in questione, o da quelle limitrofe. Si voleva forse imitare Visconti in "La Terra Trema"? Encomiabile certo ma quel film aveva un senso allora!), certe volte sono ricorso ai sottotitoli pure io. Tutto il film è una semplice messa in scena documentata della zona più orrenda di Napoli, ma ormai lo sanno tutti che c'è la camorra. Questo film a mio avviso ne finisce col fare l’apologia soprattutto per come si chiude, mentre troppo didascaliche appaiono essere le scritte finali che scorrono col sottofondo musicale dei Massive Attak, e che nessuno legge. E la creatività di immaginare qualcosa di possibile o semplicemente diverso da tutto questo come insegnava il buon Aristotele? Questo film piace agli stranieri proprio perché ricolloca tutta Napoli in un altro cliché, quello di città della malavita e delle emozioni forti. Se questo è cinema, non è il cinema che preferisco, ma soprattutto mi allarma il conformismo culturale, anche da parte dei critici, che evidentemente non sanno più leggere un’opera d’arte .
20 maggio 2008 14.57
Perché dico che il film GOMORRA non è un bel film, tenterò di spiegarlo, altrimenti sembrerebbe quasi una dichiarazione per puro spirito di contraddizione e tenterò di dire anche perché del suo successo: Intanto GOMORRA non è un bel film perché rappresenta un universo orrendo, quello della camorra e del malaffare. Vorrei partire da Aristotele, che relativamente alle cose dell’arte, fa una premessa che a me sembra fondamentale, in un tempo come il nostro che ha perso ogni riferimento immaginativo rispetto al fare arte. Ho sentito da più parti dire che questo film è un film realistico:ovvero che racconta le cose così come stanno e proprio per questo in tanti lo trovano bello.Va da sé che uno pensa che è bello solo ciò che è realistico: una deformazione percettiva che finisce con l’escludere tutto quello che invece è altro dalla realtà, un segno inquietante della nostra deriva verso società autoritarie, se vogliamo dar credito - e io gliene do - a Ernest Cassirer della Filosofia delle forme simboliche. Allora bisogna cominciare col dire che questo è un modo non corretto di avvicinarsi a qualsiasi opera d’arte, sia essa cinema, arte figurativa, musica ecc. Se così fosse, noi dovremmo dire che è bella solo quell’arte che imita la realtà e qui, cito Aristotele: “Da ciò che si è detto è chiaro che il compito dell’arte non è di dire le cose avvenute o che avvengono, ma quali possono avvenire, cioè quelle possibili […] perché esiste una differenza tra lo storico e colui che produce arte: l’uno dice le cose avvenute, l’altro quali possono avvenire”.Il film ha sequenze e piani narrativi, quasi documentaristici, sembrerebbe un film neorealista e forse lo è, ma che senso ha il neorealismo oggi, quando c’è già stato un documentario di denuncia sociale su argomenti simili che si chiama Biutiful Cauntri e quando trasmissioni televisive come Report ci hanno mostrato i termini inquietanti di questa realtà, ma non come racconto filmico? Il mio punto di vista è che se Matteo Garrone facesse lo storico e non il regista come invece è, per ritornare ad Aristotele, con l’operazione che ha fatto finirebbe col tradire pure l’oggettività storica, perché i personaggi romanzati, finiscono col diventare drammaticamente epici suscitando nello spettatore anche una pietas: penso ai due balordi ( sembravano presi da un film di Pasolini) che vogliono imitare Scarface e si mettono contro il clan dei Casalesi, ma anche al ragazzino piccolo che alla fine per non tradire la banda fa uccidere Maria.Tutto il film più che sembrare una denuncia sociale, sembra un épos del male:i personaggi finiscono col sembrare eroi tragici e manca il momento neorealista, laddove il neorealismo in un momento storico in cui non esisteva un giornalismo d’inchiesta, aveva un compito ben preciso. I giornali francesi lo osannano, forse proprio per questo, anche se io credo che ormai così come viene rappresentata Napoli è diventata un esotismo, e questo è il motivo che non me lo fa piacere ed è lo stesso per cui non mi è piaciuto il libro. Oggi che il conformismo culturale è dilagante fa sembrare un film del genere come un film di denuncia sociale, ma in realtà non lo è, anzi questo film è quasi un film apologetico, ed è tutta l’operazione che è discutibile. Incuriosito dal polverone che si è formato intorno al best seller, e non amando quel genere di lettura, ho deciso di vedere il film. Da napoletano a volte ho stentato a capire cosa dicessero gli attori del film (che, per dare un tocco di credibilità in più sono stati selezionati dalla zona in questione, o da quelle limitrofe. Si voleva forse imitare Visconti in "La Terra Trema"? Encomiabile certo ma quel film aveva un senso allora!), certe volte sono ricorso ai sottotitoli pure io. Tutto il film è una semplice messa in scena documentata della zona più orrenda di Napoli, ma ormai lo sanno tutti che c'è la camorra. Questo film a mio avviso ne finisce col fare l’apologia soprattutto per come si chiude, mentre troppo didascaliche appaiono essere le scritte finali che scorrono col sottofondo musicale dei Massive Attak, e che nessuno legge. E la creatività di immaginare qualcosa di possibile o semplicemente diverso da tutto questo come insegnava il buon Aristotele? Questo film piace agli stranieri proprio perché ricolloca tutta Napoli in un altro cliché, quello di città della malavita e delle emozioni forti. Se questo è cinema, non è il cinema che preferisco, ma soprattutto mi allarma il conformismo culturale, anche da parte dei critici, che evidentemente non sanno più leggere un’opera d’arte .
20 maggio 2008 14.57
venerdì 24 ottobre 2008
martedì 21 ottobre 2008
Lo Zahir, Paulo Coelho
“Lo Zahir era la fissazione su ciò che era stato trasmesso di generazione in generazione, che non lasciava nessuna domanda senza risposta, occupava tutto il nostro spazio, non ci permetteva mai di prendere in considerazione l’ipotesi che le cose cambiassero.
L’onnipotente Zahir sembrava nascere insieme a ogni essere umano, e acquisire la propria forza durante l’infanzia, imponendo le sue regole che, da quel momento, avrebbero dovuto essere rispettate per sempre:
La gente diversa è pericolosa, appartiene a un’altra tribù, vuole le nostre terre e le nostre donne.
Dobbiamo sposarci, avere figli, perpeturare la specie.
L’amore è piccolo, serve soltanto per una persona – comunque qualsisasi tentativo di affermare che il cuore può ospitare più di un solo amore dev’essere considerato maledetto.
Quando ci sposiamo, siamo autorizzati a prendere possesso del corpo e dell’anima dell’altro.
Poiché facciamo parte di una società organizzata, si deve accettare di lavorare in un campo che detestiamo: se tutti facessero ciò che desiderano, il mondo non andrebbe più avanti.
Abbiamo l’obbligo di acquistare e indossare i gioielli: essi ci identificano con la nostra tribù, proprio come i piercing connotano una tribù diversa.
Dobbiamo essere divertenti e trattare con ironia quelli che esprimono i loro sentimenti – per la società è un pericolo lasciare che un membro manifesti ciò che sente.
È fondamentale evitare fortemente di dire “No”, giacché risultiamo più graditi quando diciamo “Sì” – e questo ci permette di sopravvivere in un ambiente ostile.
Ciò che gli altri pensano è più importante di ciò che sentiamo noi.
Non bisogna mai suscitare scandali: si potrebbe richiamare l’attenzione di una tribù nemica.
Se ci si comporta in maniera diversa si verrà espulsi dalla società, perché si potrebbe contagiare gli altri e distruggere tutto ciò che è stato organizzato con grande difficoltà.
Dobbiamo sempre aver presente lo “stile” che deve caratterizzare la nostra vita nelle nuove caverne: se non ne abbiamo uno, consulteremo un decoratore o un arredatore – che sfrutterà le migliori soluzioni del mercato per dimostrare agli altri che abbiamo buon gusto.
È opportuno mangiare tre volte al giorno, anche se non abbiamo fame. Dobbiamo digiunare quando violiamo i canoni della bellezza, anche se questo ci porterà a essere affamati.
Dobbiamo vestirci secondo i dettami della moda, fare all’amore con o senza voglia, uccidere in nome delle frontiere, augurarsi che il tempo passi in fretta e arrivi presto il pensionamento, eleggere i politici, lamentarci per il costo della vita, cambiare pettinatura, maledire coloro che sono diversi, frequentare le funzioni religiose la domenica, o il sabato, oppure il venerdì, a seconda della nostra fede. E lì chiedere perdono per i peccati, riempirci di orgoglio perché abbiamo la verità e disprezzare l’altra tribù, che adora un falso dio.
I figli devono seguire le nostre orme: in fin dei conti, noi siamo più vecchi e conosciamo il mondo.
Dobbiamo conseguire sempre una laurea, anche se non troveremo mai un lavoro nel campo in cui ci hanno obbligati a scegliere la nostra carriera.
Dobbiamo studiare cose che non ci serviranno mai, ma che qualcuno ci ha detto che era importante conoscere: algebra, trigonometria, il codice di Hammurabi.
Non dobbiamo mai rattristare i nostri genitori, anche se ciò significa rinunciare a tutto ciò che ci rende felici.
Dobbiamo ascoltare musica a basso volume, parlare sottovoce, piangere di nascosto, perché io sono l’onnipotente Zahir, quello che ha dettato le regole del gioco, la distanza fra i binari, l’idea del successo, la maniera di amare e l’importanza delle ricompense.”
P. Coelho, Lo Zahir
L’onnipotente Zahir sembrava nascere insieme a ogni essere umano, e acquisire la propria forza durante l’infanzia, imponendo le sue regole che, da quel momento, avrebbero dovuto essere rispettate per sempre:
La gente diversa è pericolosa, appartiene a un’altra tribù, vuole le nostre terre e le nostre donne.
Dobbiamo sposarci, avere figli, perpeturare la specie.
L’amore è piccolo, serve soltanto per una persona – comunque qualsisasi tentativo di affermare che il cuore può ospitare più di un solo amore dev’essere considerato maledetto.
Quando ci sposiamo, siamo autorizzati a prendere possesso del corpo e dell’anima dell’altro.
Poiché facciamo parte di una società organizzata, si deve accettare di lavorare in un campo che detestiamo: se tutti facessero ciò che desiderano, il mondo non andrebbe più avanti.
Abbiamo l’obbligo di acquistare e indossare i gioielli: essi ci identificano con la nostra tribù, proprio come i piercing connotano una tribù diversa.
Dobbiamo essere divertenti e trattare con ironia quelli che esprimono i loro sentimenti – per la società è un pericolo lasciare che un membro manifesti ciò che sente.
È fondamentale evitare fortemente di dire “No”, giacché risultiamo più graditi quando diciamo “Sì” – e questo ci permette di sopravvivere in un ambiente ostile.
Ciò che gli altri pensano è più importante di ciò che sentiamo noi.
Non bisogna mai suscitare scandali: si potrebbe richiamare l’attenzione di una tribù nemica.
Se ci si comporta in maniera diversa si verrà espulsi dalla società, perché si potrebbe contagiare gli altri e distruggere tutto ciò che è stato organizzato con grande difficoltà.
Dobbiamo sempre aver presente lo “stile” che deve caratterizzare la nostra vita nelle nuove caverne: se non ne abbiamo uno, consulteremo un decoratore o un arredatore – che sfrutterà le migliori soluzioni del mercato per dimostrare agli altri che abbiamo buon gusto.
È opportuno mangiare tre volte al giorno, anche se non abbiamo fame. Dobbiamo digiunare quando violiamo i canoni della bellezza, anche se questo ci porterà a essere affamati.
Dobbiamo vestirci secondo i dettami della moda, fare all’amore con o senza voglia, uccidere in nome delle frontiere, augurarsi che il tempo passi in fretta e arrivi presto il pensionamento, eleggere i politici, lamentarci per il costo della vita, cambiare pettinatura, maledire coloro che sono diversi, frequentare le funzioni religiose la domenica, o il sabato, oppure il venerdì, a seconda della nostra fede. E lì chiedere perdono per i peccati, riempirci di orgoglio perché abbiamo la verità e disprezzare l’altra tribù, che adora un falso dio.
I figli devono seguire le nostre orme: in fin dei conti, noi siamo più vecchi e conosciamo il mondo.
Dobbiamo conseguire sempre una laurea, anche se non troveremo mai un lavoro nel campo in cui ci hanno obbligati a scegliere la nostra carriera.
Dobbiamo studiare cose che non ci serviranno mai, ma che qualcuno ci ha detto che era importante conoscere: algebra, trigonometria, il codice di Hammurabi.
Non dobbiamo mai rattristare i nostri genitori, anche se ciò significa rinunciare a tutto ciò che ci rende felici.
Dobbiamo ascoltare musica a basso volume, parlare sottovoce, piangere di nascosto, perché io sono l’onnipotente Zahir, quello che ha dettato le regole del gioco, la distanza fra i binari, l’idea del successo, la maniera di amare e l’importanza delle ricompense.”
P. Coelho, Lo Zahir
lunedì 20 ottobre 2008
Ferite Invisibili nella Bosnia Herzegovina di Oggi
FERITE INVISIBILI NELLA BOSNIA HERZEGOVINA DI OGGI
di Hannah Cristina Scaramella
TUZLA, Bosnia-Herzegovina,
Ottobre 2008
Scrivo dalla Bosnia Herzegovina dove lavoro e vivo stabilmente da più di un anno. Ho iniziato già 6 anni fà a lavorare qui, ma sempre in progetti di brevi periodi. Sono un arte terapeuta, ho collaborato in passato a diversi progetti, con istituzioni e con l’associazioni locali Bosniache, attualmente lavoro come arte terapeuta nell’orfanotrofio della città di Tuzla, in collaborazioni con Fondazioni e associazioni di giovani nelle città di Srebrenica e Bratunaz.
Nella città di Tuzla conduco laboratori di arte terapia rivolti ad adolescenti e bambini abbandonati e vittime di traumi: le terapie espressive sono molto efficaci nel trattamento dei traumi e molto usate nei paesi anglosassoni, ma ancora poco conosciute in Italia e in Bosnia.
A 13 anni dalla fine della guerra questo paese sta facendo ancora i conti con le gravi conseguenze lasciate sul piano sociale, umano ed economico. Moltissimi sono ancora i profughi, il tasso di disoccupazione è altissimo e il numero di bambini abbandonati è più che raddoppiato negli ultimi anni.
Da qualche anno le città appaiono quasi del tutto ricostruite e a giudicare dal numero dei bar-caffè e dei centri commerciali che “fioriscono” quasi giornalmente sembra che tutto sia rientrato nella cosiddetta normalità.
Le piaghe lasciate dalla guerra sono nascoste, ma neanche poi tanto: basta uscire di pochi kilometri dalla città, oltrepassare una collina e andare in un villaggio e nelle campagne (dove peraltro vive la maggior parte dei cittadini bosniaci) e magari entrare in una casa, per rendersi conto di quanto strazio e miseria possa lasciare una guerra dopo 13 anni. Ed è sempre dietro le colline che circondano le città che si nascondono la maggior parte dei campi profughi, che sono ancora molti qui in Bosnia, e di cui più nessun mass media parla ormai più.
Qui in Bosnia sono moltissimi gli adulti che hanno vissuto orrori impensabili a causa dei quali presentano sintomi di post traumatic strss duraturi e non sono in grado di prendersi cura di se stessi e ancora meno dei propri figli. Senad, ad esempio è un ragazzo di 14 anni ospite dell’orfanotrofio di Tuzla, era molto piccolo durante la guerra, ma è ugualmente vittima di questa. Sua madre è stata uccisa quando era molto piccolo e il padre attualmente passa da un ricovero psichiatrico all’altro. Questo uomo ha frequenti accessi di ira incontrollata che dirige spesso anche verso il figlio, una tipica manifestazione di post traumatic stress. Senad e suo padre vengono da un villaggio che ha subito massacri e distruzione e che adesso è abitato in prevalenza da sopravvissuti; gente povera, senza prospettive di lavoro, che hanno vissuto orrori inimmaginabili.
Tutti i bambini e gli adolescenti ospiti dell’orfanotrofio e dei campi profughi hanno storie simili a quella di Senad, e spesso vengono da piccoli borghi molto poveri, luoghi isolati, dove il tasso di disoccupazaione è altissimo, molto più che nelle città.
I bambini rappresentano il futuro di questo paese e in modo particolrae quelli come Senad, che hanno vissuto forti deprivazioni e abusi hanno bisogno di un sostegno psicologico professionale che li aiuti ad elaborare il proprio vissuto e a riscattare se stessi dalla percezione di vittime impotenti e di emarginati che hanno di se. Hanno bisogno di un sostegno che li aiuti prima di tutto a creare dentro di loro la speranza e un grado sufficiente di autostima che saranno le basi, una volta adulti, per potersi relazionare con la difficile realtà che li circonda. I bambini come Senad sono moltissimi in questo paese e se non viene fornita loro la possibilità di trasformare ad un livello profondo la propria esperienza traumatica e di abbandono ci sono purtroppo buone probabilità che una volta adulti ripeteranno i comportamenti distruttivi dei genitori, continuando il ciclo delle violenze.
In questi anni di lavoro con i bambini e gli adolescenti che vivono nei campi profughi e nell’orfanotrofio ho avuto modo di constatare le straordinarie risorse e le grandi potenzialità che, nonostante le brutte esperienze, sopravvivono in loro, ma che se non hanno un contensto adeguato che gli consente di emergere, di essere riconosciute e valorizzate, rischiano di essere sopraffatte dalle dinamiche distruttive che essi hanno conosciuto fino ad ora come esperienze di base della loro vita.
L’arte terapia si è dimostrata fin’ora molto efficace nel fornire loro un ambiente che li aiuta realmente a far emergere le proprie potenzialità e ad accrescerle.
Obiettivo di base del laboratorio di arte terapia è prima di tutto creare un ambiente rassicurante, basato sulla fiducia e privo di giudizio, dove sia facilitata l’espressione dei sentimenti e la condivisione con gli altri. Per aiutare l'emergere delle risorse personali dei bambini è necessario offrire loro uno spazio espressivo e creativo in cui investire le energie in senso costruttivo, dove elaborare attraverso la rappresentazione le proprie emozioni aumentando la consapevolezza di sé, e dare sostegno alla sua identità personale.
Attraverso le attività di arte terapia è possibile facilitare e sostenere le modalità e lo stile espressivo personali, la stima di sé, la fiducia e la comunicazione.
Disegnare, dipingere o modellare la creta permette di esprimere vissuti troppo dolorosi per poter essere definiti e comunicati con le parole, e allo stesso tempo le immagini consentono di creare una certa distanza da essi. Un oggetto creativo nasce dal mondo interno del suo creatore e prende forma attraverso le sue mani, ma è anche allo stesso tempo qualcosa che sta fuori di lui e in una dimensione nella quale può essere visto, pensato, osservato nelle sue qualità e condiviso. Gli aspetti simbolici osservati nella rappresentazione permettono di essere ricondotti ai vissuti dell’esperienza traumatica e di coglierne aspetti nuovi e fin’ora sconosciuti; pensare il proprio vissuto attraverso un linguaggio simbolico consente di dare un contenimento e una forma a ciò che era troppo terribile per essere espresso in modo diretto, e di trovare strumenti per dialogare con i vissuti indicibili avviando un processo di trasformazione interiore.
I banbini e gli adolescenti della Bosnia, se aiutati in modo adeguato, possono recuperare dentro di sè le straordinarie risorse positive che dal punto di vista umano e culturale sono da sempre patrimonio di questo paese, e che la guerra non è riuscita a distruggere complertamente. Ed il bagaglio di risorse vitali e costruttive che sopravvive in loro sono la vera richezza del il futuro di questo paese, sono semi che hanno bisogno di essere curati e nutriti per potersi sviluppare, crescere, e sfidare il senso di rassegnazione, la paura e la distruttività che la guerra ha lasciato alle nuove generazioni come una pesante eredità di morte e alla quale essi sono chiamati a rispondere con la vita.
di Hannah Cristina Scaramella
TUZLA, Bosnia-Herzegovina,
Ottobre 2008
Scrivo dalla Bosnia Herzegovina dove lavoro e vivo stabilmente da più di un anno. Ho iniziato già 6 anni fà a lavorare qui, ma sempre in progetti di brevi periodi. Sono un arte terapeuta, ho collaborato in passato a diversi progetti, con istituzioni e con l’associazioni locali Bosniache, attualmente lavoro come arte terapeuta nell’orfanotrofio della città di Tuzla, in collaborazioni con Fondazioni e associazioni di giovani nelle città di Srebrenica e Bratunaz.
Nella città di Tuzla conduco laboratori di arte terapia rivolti ad adolescenti e bambini abbandonati e vittime di traumi: le terapie espressive sono molto efficaci nel trattamento dei traumi e molto usate nei paesi anglosassoni, ma ancora poco conosciute in Italia e in Bosnia.
A 13 anni dalla fine della guerra questo paese sta facendo ancora i conti con le gravi conseguenze lasciate sul piano sociale, umano ed economico. Moltissimi sono ancora i profughi, il tasso di disoccupazione è altissimo e il numero di bambini abbandonati è più che raddoppiato negli ultimi anni.
Da qualche anno le città appaiono quasi del tutto ricostruite e a giudicare dal numero dei bar-caffè e dei centri commerciali che “fioriscono” quasi giornalmente sembra che tutto sia rientrato nella cosiddetta normalità.
Le piaghe lasciate dalla guerra sono nascoste, ma neanche poi tanto: basta uscire di pochi kilometri dalla città, oltrepassare una collina e andare in un villaggio e nelle campagne (dove peraltro vive la maggior parte dei cittadini bosniaci) e magari entrare in una casa, per rendersi conto di quanto strazio e miseria possa lasciare una guerra dopo 13 anni. Ed è sempre dietro le colline che circondano le città che si nascondono la maggior parte dei campi profughi, che sono ancora molti qui in Bosnia, e di cui più nessun mass media parla ormai più.
Qui in Bosnia sono moltissimi gli adulti che hanno vissuto orrori impensabili a causa dei quali presentano sintomi di post traumatic strss duraturi e non sono in grado di prendersi cura di se stessi e ancora meno dei propri figli. Senad, ad esempio è un ragazzo di 14 anni ospite dell’orfanotrofio di Tuzla, era molto piccolo durante la guerra, ma è ugualmente vittima di questa. Sua madre è stata uccisa quando era molto piccolo e il padre attualmente passa da un ricovero psichiatrico all’altro. Questo uomo ha frequenti accessi di ira incontrollata che dirige spesso anche verso il figlio, una tipica manifestazione di post traumatic stress. Senad e suo padre vengono da un villaggio che ha subito massacri e distruzione e che adesso è abitato in prevalenza da sopravvissuti; gente povera, senza prospettive di lavoro, che hanno vissuto orrori inimmaginabili.
Tutti i bambini e gli adolescenti ospiti dell’orfanotrofio e dei campi profughi hanno storie simili a quella di Senad, e spesso vengono da piccoli borghi molto poveri, luoghi isolati, dove il tasso di disoccupazaione è altissimo, molto più che nelle città.
I bambini rappresentano il futuro di questo paese e in modo particolrae quelli come Senad, che hanno vissuto forti deprivazioni e abusi hanno bisogno di un sostegno psicologico professionale che li aiuti ad elaborare il proprio vissuto e a riscattare se stessi dalla percezione di vittime impotenti e di emarginati che hanno di se. Hanno bisogno di un sostegno che li aiuti prima di tutto a creare dentro di loro la speranza e un grado sufficiente di autostima che saranno le basi, una volta adulti, per potersi relazionare con la difficile realtà che li circonda. I bambini come Senad sono moltissimi in questo paese e se non viene fornita loro la possibilità di trasformare ad un livello profondo la propria esperienza traumatica e di abbandono ci sono purtroppo buone probabilità che una volta adulti ripeteranno i comportamenti distruttivi dei genitori, continuando il ciclo delle violenze.
In questi anni di lavoro con i bambini e gli adolescenti che vivono nei campi profughi e nell’orfanotrofio ho avuto modo di constatare le straordinarie risorse e le grandi potenzialità che, nonostante le brutte esperienze, sopravvivono in loro, ma che se non hanno un contensto adeguato che gli consente di emergere, di essere riconosciute e valorizzate, rischiano di essere sopraffatte dalle dinamiche distruttive che essi hanno conosciuto fino ad ora come esperienze di base della loro vita.
L’arte terapia si è dimostrata fin’ora molto efficace nel fornire loro un ambiente che li aiuta realmente a far emergere le proprie potenzialità e ad accrescerle.
Obiettivo di base del laboratorio di arte terapia è prima di tutto creare un ambiente rassicurante, basato sulla fiducia e privo di giudizio, dove sia facilitata l’espressione dei sentimenti e la condivisione con gli altri. Per aiutare l'emergere delle risorse personali dei bambini è necessario offrire loro uno spazio espressivo e creativo in cui investire le energie in senso costruttivo, dove elaborare attraverso la rappresentazione le proprie emozioni aumentando la consapevolezza di sé, e dare sostegno alla sua identità personale.
Attraverso le attività di arte terapia è possibile facilitare e sostenere le modalità e lo stile espressivo personali, la stima di sé, la fiducia e la comunicazione.
Disegnare, dipingere o modellare la creta permette di esprimere vissuti troppo dolorosi per poter essere definiti e comunicati con le parole, e allo stesso tempo le immagini consentono di creare una certa distanza da essi. Un oggetto creativo nasce dal mondo interno del suo creatore e prende forma attraverso le sue mani, ma è anche allo stesso tempo qualcosa che sta fuori di lui e in una dimensione nella quale può essere visto, pensato, osservato nelle sue qualità e condiviso. Gli aspetti simbolici osservati nella rappresentazione permettono di essere ricondotti ai vissuti dell’esperienza traumatica e di coglierne aspetti nuovi e fin’ora sconosciuti; pensare il proprio vissuto attraverso un linguaggio simbolico consente di dare un contenimento e una forma a ciò che era troppo terribile per essere espresso in modo diretto, e di trovare strumenti per dialogare con i vissuti indicibili avviando un processo di trasformazione interiore.
I banbini e gli adolescenti della Bosnia, se aiutati in modo adeguato, possono recuperare dentro di sè le straordinarie risorse positive che dal punto di vista umano e culturale sono da sempre patrimonio di questo paese, e che la guerra non è riuscita a distruggere complertamente. Ed il bagaglio di risorse vitali e costruttive che sopravvive in loro sono la vera richezza del il futuro di questo paese, sono semi che hanno bisogno di essere curati e nutriti per potersi sviluppare, crescere, e sfidare il senso di rassegnazione, la paura e la distruttività che la guerra ha lasciato alle nuove generazioni come una pesante eredità di morte e alla quale essi sono chiamati a rispondere con la vita.
Hannah Cristina Scaramella
hannahscaramella@gmail.com
hannahscaramella@gmail.com
Testi sull’esperienza di arte terapia in Bosnia Herzegovina alle pagine web:
http://www.associazioneprogress.it/progress.html
http://www.unive.it/nqcontent.cfm?a_id=21724
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bosnia,
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volontariato
domenica 19 ottobre 2008
No Comment...anzi! 1
Metto un link.
Così che chi legge può saltellare un pò.
E l'urlo s'unìsona...
http://8a360.blogspot.com/2008/10/8360-no-commentanzi-si.html
Così che chi legge può saltellare un pò.
E l'urlo s'unìsona...
http://8a360.blogspot.com/2008/10/8360-no-commentanzi-si.html
Cassazione: «Lo sfruttamento sul lavoro è estorsione aggravata»
Cassazione: «Lo sfruttamento sul lavoro è estorsione aggravata»
La condanna: 3 anni di reclusioneÈ un ricatto. Sottopagare, non versare i contributi o non fare contratti, approfittando di una situazione di mercato che ha grande domanda e poca offerta di occupazione è estorsione. Lo ha deciso la Cassazione che con una sentenza destinata a fare giurisprudenza, che ha condannato tre datori di lavoro per estorsione.I tre avevano fatto ricorso contro la Corte d’Appello di Caliari che nel 2003 aveva inflitto loro una pena di oltre tre anni di reclusione e 800 euro di multa per estorsione aggravata e continuata. Tutto era nato dalla denuncia di tre lavoratrici costrette «ad accettare trattamenti retributivi deteriori e non corrispondenti alle prestazioni effettuate e, in genere, condizioni di lavoro contrarie alla legge e ai contratti collettivi, ponendo le dipendenti in una situazione di condizionamento morale, in cui ribellarsi alle condizioni vessatorie equivaleva a perdere il posto di lavoro». I datori di lavoro si difesero dicendo che sì, le dipendenti lavoravano in nero, ma loro non volevano ricattare nessuno.In realtà, i giudici hanno stabilito che la minaccia di licenziamento può «presentarsi in molteplici forme ed essere esplicita o larvata, scritta od orale, determinata o indeterminata e fin anche assumere la forma di esortazioni e di consigli. Ciò che rileva –e qui sta il punto – è il proposito perseguito dal soggetto agente». Nel caso degli imprenditori sardi, la Cassazione ha evidenziato «tali e tanti comportamenti prevaricatori dei datori di lavoro in costante spregio dei diritti delle lavoratrici»: si va dalla pretesa di far firmare prospetti-paga per importi superiori a quelli effettivamente corrisposti all'assenza di copertura assicurativa, dalla mancata concessione delle ferie fino alla prestazione di lavoro straordinario non retribuito. Niente di eccezionale, purtroppo, aggravata dal fatto che gli imputati ricorrevano «ad esplicite minacce». Ma la sentenza li inchioda alla responsabilità di essersi «costantemente avvalsi della situazione del mercato del lavoro ad essi particolarmente favorevole».Pubblicato il: 05.10.07 Modificato il: 05.10.07 alle ore 16.28 fonte: http://www.unita.it/view.asp?idContent=69413
La condanna: 3 anni di reclusioneÈ un ricatto. Sottopagare, non versare i contributi o non fare contratti, approfittando di una situazione di mercato che ha grande domanda e poca offerta di occupazione è estorsione. Lo ha deciso la Cassazione che con una sentenza destinata a fare giurisprudenza, che ha condannato tre datori di lavoro per estorsione.I tre avevano fatto ricorso contro la Corte d’Appello di Caliari che nel 2003 aveva inflitto loro una pena di oltre tre anni di reclusione e 800 euro di multa per estorsione aggravata e continuata. Tutto era nato dalla denuncia di tre lavoratrici costrette «ad accettare trattamenti retributivi deteriori e non corrispondenti alle prestazioni effettuate e, in genere, condizioni di lavoro contrarie alla legge e ai contratti collettivi, ponendo le dipendenti in una situazione di condizionamento morale, in cui ribellarsi alle condizioni vessatorie equivaleva a perdere il posto di lavoro». I datori di lavoro si difesero dicendo che sì, le dipendenti lavoravano in nero, ma loro non volevano ricattare nessuno.In realtà, i giudici hanno stabilito che la minaccia di licenziamento può «presentarsi in molteplici forme ed essere esplicita o larvata, scritta od orale, determinata o indeterminata e fin anche assumere la forma di esortazioni e di consigli. Ciò che rileva –e qui sta il punto – è il proposito perseguito dal soggetto agente». Nel caso degli imprenditori sardi, la Cassazione ha evidenziato «tali e tanti comportamenti prevaricatori dei datori di lavoro in costante spregio dei diritti delle lavoratrici»: si va dalla pretesa di far firmare prospetti-paga per importi superiori a quelli effettivamente corrisposti all'assenza di copertura assicurativa, dalla mancata concessione delle ferie fino alla prestazione di lavoro straordinario non retribuito. Niente di eccezionale, purtroppo, aggravata dal fatto che gli imputati ricorrevano «ad esplicite minacce». Ma la sentenza li inchioda alla responsabilità di essersi «costantemente avvalsi della situazione del mercato del lavoro ad essi particolarmente favorevole».Pubblicato il: 05.10.07 Modificato il: 05.10.07 alle ore 16.28 fonte: http://www.unita.it/view.asp?idContent=69413
Il Fantasma della Casa Bianca
Tre giorni fa, venerdì 10 ottobre, il mondo sussultava sotto l’impatto della crisi finanziaria di Wall Street. Si è perso il conto dei milioni di dollari in banconota che la Riserva Federale ha iniettato nelle finanze mondiali perché le banche continuino a funzionare e i risparmiatori non perdano i loro soldi.
La riunione di ministri delle Finanze del Gruppo dei 7 accordò applicare le seguenti misure:
. “Prendere azioni decisive ed utilizzare tutti gli strumenti disponibili per appoggiare istituzioni finanziarie importanti per il sistema e prevenire il fallimento di esse.
. “Fare tutti i passi necessari per scongelare i mercati di crediti e i monetari e assicurare che le banche e altre istituzioni finanziarie abbiano ampio accesso alla liquidità e ai fondi.
. “Assicurare che le banche e altri intermediari finanziari maggiori possano, secondo i propri bisogni, raggruppare capitale dai fonti pubblici così come dai privati, con importi sufficienti per ristabilire la fiducia e permetterli che continuino a dare dei prestiti per le famiglie e per gli affari.
. “Assicurare che le rispettive assicurazioni nazionali di depositi e i programmi di garanzia siano solidi e consistenti in modo che i depositanti al dettaglio continuino ad avere fiducia nella sicurezza dei propri depositi.
. “Agire, quando sia opportuno, per rilanciare i mercati secondari per ipoteche.”
Lo stesso giorno, il segretario del Tesoro degli Stati Uniti confermò che il governo avrebbe acquisito azioni delle banche, associandosi con questo all’iniziativa britannica. Sia gli Stati Uniti che il Regno Unito hanno indicato che acquisteranno azioni privilegiate, che sono quelle che prima ricevono dei dividendi, ma non hanno diritto al voto.
Il presidente Bush non ha ritenuto necessaria la sua presenza in quella riunione dei ministri delle Finanze. Si sarebbe riunito con loro il sabato. Dov’era venerdì 10 ottobre? Nientemeno che a Miami. Era presente in un atto di raccolta di fondi per i candidati repubblicani della Florida. Soltanto con l’approvazione del 24 percento dei cittadini, era il capo di Stato con meno sostegno in tutta la storia degli Stati Uniti. Si riuniva con imprenditori e capoccia della scoria cubana di Miami. Continuava lì la sua maniaca ossessione anticubana, alla fine del suo tenebroso periodo d’otto anni a capo dell’impero. Non ha nemmeno potuto contare sul sostegno della Fondazione Cubano-Americana creata da Reagan nella sua crociata contro Cuba.
Per motivi puramente demagogici, questa gli aveva richiesto pubblicamente di togliere con carattere provvisorio il divieto d’inviare aiuto diretto ai famigliari e alle persone colpite dai distruttori uragani che avevano battuto il nostro popolo. Raúl Martínez, un ex sindaco di Hialeah, rivale del congressista Lincoln Díaz‑Balart, aveva criticato l’attuale politica di chi fraudolentemente è stato eletto Presidente con meno voti nazionali del suo avversario, in virtù del peso della Florida nel conteggio di voti elettorali, quando in realtà nemmeno lì aveva la maggioranza.
Domenica 12 ottobre l’Unione Europea, sotto la presidenza di Francia, ha accordato richiedere agli Stati Uniti l’organizzazione di un vertice per “rifondare il sistema finanziario internazionale”. Così è stato dichiarato dal presidente Nicolás Sarkozy, dopo una riunione dei paesi della Zona Europea a Parigi.
Sarkozy ha indicato che adesso l’Europa deve unirsi agli Stati Uniti e ad altre potenze per sradicare le cause della crisi finanziaria che ha fatto crollare i mercati borsistici.
“ Dobbiamo convincere i nostri amici statunitensi della necessità di un vertice internazionale per rifondare il sistema finanziario”, ha indicato Sarkozy, presidente di turno dell’UE. Non sarà un regalo alle banche, ha affermato con enfasi il Presidente di Francia.
Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, entra oggi nei suoi ultimi 100 giorni, intorpidito da un’altissima impopolarità e da una delle crisi economiche più importanti degli ultimi decenni.
Il ministro brasiliano del tesoro e delle finanze, Guido Mantega, ha criticato oggi al FMI per mettere i paesi evoluti come un modello a seguire, e ha detto che nella riforma futura del sistema finanziario non devono predominare le norme di quelle nazioni.
“Il mondo partecipa incredulo, mentre la crisi attuale rivela debolezze e gravi errori nella politica di paesi che erano considerati modelli, paesi che erano presentati come riferimento di buon governo”, ha detto Mantega dinanzi al Comitato Monetario e Finanziario Internazionale, organo principale del FMI.
Con l’economia mondiale spezzata, il Presidente degli Stati Uniti, fatto arrivare a quella carica in modo irregolare ed irresponsabile ha messo in imbarazzo a tutti gli alleati della NATO e del Giappone, il più sviluppato e ricco socio militare, economico e tecnologico degli Stati Uniti nel Pacifico.
Miami è oggi una gabbia di matti, e Bush è diventato un fantasma.
Le borse non sono più cadute perché erano già per terra. Oggi respiravano felici con le colossali iniezioni di denaro che di nuovo –futuro. L’assurdo, tuttavia, non può mantenersi. Bretton Woods agonizza. Il mondo non sarà più lo stesso.
Fidel Castro Ruz
13 ottobre 2008
5:20 p.m.
La riunione di ministri delle Finanze del Gruppo dei 7 accordò applicare le seguenti misure:
. “Prendere azioni decisive ed utilizzare tutti gli strumenti disponibili per appoggiare istituzioni finanziarie importanti per il sistema e prevenire il fallimento di esse.
. “Fare tutti i passi necessari per scongelare i mercati di crediti e i monetari e assicurare che le banche e altre istituzioni finanziarie abbiano ampio accesso alla liquidità e ai fondi.
. “Assicurare che le banche e altri intermediari finanziari maggiori possano, secondo i propri bisogni, raggruppare capitale dai fonti pubblici così come dai privati, con importi sufficienti per ristabilire la fiducia e permetterli che continuino a dare dei prestiti per le famiglie e per gli affari.
. “Assicurare che le rispettive assicurazioni nazionali di depositi e i programmi di garanzia siano solidi e consistenti in modo che i depositanti al dettaglio continuino ad avere fiducia nella sicurezza dei propri depositi.
. “Agire, quando sia opportuno, per rilanciare i mercati secondari per ipoteche.”
Lo stesso giorno, il segretario del Tesoro degli Stati Uniti confermò che il governo avrebbe acquisito azioni delle banche, associandosi con questo all’iniziativa britannica. Sia gli Stati Uniti che il Regno Unito hanno indicato che acquisteranno azioni privilegiate, che sono quelle che prima ricevono dei dividendi, ma non hanno diritto al voto.
Il presidente Bush non ha ritenuto necessaria la sua presenza in quella riunione dei ministri delle Finanze. Si sarebbe riunito con loro il sabato. Dov’era venerdì 10 ottobre? Nientemeno che a Miami. Era presente in un atto di raccolta di fondi per i candidati repubblicani della Florida. Soltanto con l’approvazione del 24 percento dei cittadini, era il capo di Stato con meno sostegno in tutta la storia degli Stati Uniti. Si riuniva con imprenditori e capoccia della scoria cubana di Miami. Continuava lì la sua maniaca ossessione anticubana, alla fine del suo tenebroso periodo d’otto anni a capo dell’impero. Non ha nemmeno potuto contare sul sostegno della Fondazione Cubano-Americana creata da Reagan nella sua crociata contro Cuba.
Per motivi puramente demagogici, questa gli aveva richiesto pubblicamente di togliere con carattere provvisorio il divieto d’inviare aiuto diretto ai famigliari e alle persone colpite dai distruttori uragani che avevano battuto il nostro popolo. Raúl Martínez, un ex sindaco di Hialeah, rivale del congressista Lincoln Díaz‑Balart, aveva criticato l’attuale politica di chi fraudolentemente è stato eletto Presidente con meno voti nazionali del suo avversario, in virtù del peso della Florida nel conteggio di voti elettorali, quando in realtà nemmeno lì aveva la maggioranza.
Domenica 12 ottobre l’Unione Europea, sotto la presidenza di Francia, ha accordato richiedere agli Stati Uniti l’organizzazione di un vertice per “rifondare il sistema finanziario internazionale”. Così è stato dichiarato dal presidente Nicolás Sarkozy, dopo una riunione dei paesi della Zona Europea a Parigi.
Sarkozy ha indicato che adesso l’Europa deve unirsi agli Stati Uniti e ad altre potenze per sradicare le cause della crisi finanziaria che ha fatto crollare i mercati borsistici.
“ Dobbiamo convincere i nostri amici statunitensi della necessità di un vertice internazionale per rifondare il sistema finanziario”, ha indicato Sarkozy, presidente di turno dell’UE. Non sarà un regalo alle banche, ha affermato con enfasi il Presidente di Francia.
Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, entra oggi nei suoi ultimi 100 giorni, intorpidito da un’altissima impopolarità e da una delle crisi economiche più importanti degli ultimi decenni.
Il ministro brasiliano del tesoro e delle finanze, Guido Mantega, ha criticato oggi al FMI per mettere i paesi evoluti come un modello a seguire, e ha detto che nella riforma futura del sistema finanziario non devono predominare le norme di quelle nazioni.
“Il mondo partecipa incredulo, mentre la crisi attuale rivela debolezze e gravi errori nella politica di paesi che erano considerati modelli, paesi che erano presentati come riferimento di buon governo”, ha detto Mantega dinanzi al Comitato Monetario e Finanziario Internazionale, organo principale del FMI.
Con l’economia mondiale spezzata, il Presidente degli Stati Uniti, fatto arrivare a quella carica in modo irregolare ed irresponsabile ha messo in imbarazzo a tutti gli alleati della NATO e del Giappone, il più sviluppato e ricco socio militare, economico e tecnologico degli Stati Uniti nel Pacifico.
Miami è oggi una gabbia di matti, e Bush è diventato un fantasma.
Le borse non sono più cadute perché erano già per terra. Oggi respiravano felici con le colossali iniezioni di denaro che di nuovo –futuro. L’assurdo, tuttavia, non può mantenersi. Bretton Woods agonizza. Il mondo non sarà più lo stesso.
Fidel Castro Ruz
13 ottobre 2008
5:20 p.m.
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giovedì 16 ottobre 2008
Il Male
"Il male" è stato l’ultimo grande giornale di satira, vignette e fumetti, ma soprattutto è stata l’ultima testata satirica ad avere una redazione, che diventava spesso un ’’autore collettivo’’. Uno dello staff metteva l’idea, l’altro il supporto fotografico, un altro disegnava, un ultimo colorava, qualcuno impaginava. Le realizzazioni finali (e la gran necessità di lasciare vignette ’’forti e/o eccessive’’ anonime per evitare denuncie), erano "figlie di un reggimento", frutto di sinergie e collaborazioni. In questo senso è stato irripetibile, tutt’altra cosa dal classico disegnatore solitario, unico artefice del proprio lavoro. Ricordiamo quindi alcuni dei suoi autori, con i nomi ripresi direttamente dalla gerenza della testata di un numero a caso, quello del 30 Giugno 1980: Angese (che è morto nel Febbraio 2008), Carlo Cagni, Mario Canale, Barbara Cannata, Giovanna Caronia, Francesco Cascioli, Ciro, Franco D., Lucio Lanza, Cinzia Leone, Karen (Jacopo Fo), Jiga Melick, Piero Lo Sardo, Angelo Pasquini, Anna-Dora-Marisa le tre sorelle Bandiera, Giuliano, Guglielmo, Marione, Carlo Marulli, Gerardo Orsini, Gian Pietro Parmegiani, Stefano, Enzo Sferra, Simonetta, Tersite (Vincenzo Sparagna), Vincino, i ragazzi della 15 Giugno, Alain Denis, Fanale, Dario Fiori, Sandro Giustibelli, Yves Got, Tom Johnston, Tanino Liberatore, Massimo Mattioli, Franco Moretti, Tony Munzlinger, Andrea Pazienza, Roberto Perini, Reiser, Rochette, Filippo Scozzari, Sergio Saviane, Stefano Tamburini, Roland Topor, Wilem, Wolinski, Pino Zac.
Que Viva Mexico
QUE VIVA MEXICO
(Appunti ordinati del disorientamento di un viaggio)
Ero molto più giovane quando ho visto per la prima volta il documentario di Sergej M.Ejzenstejn “Que Viva Mexico”, sono rimasto incollato alla sedia per tutta la durata del film. Affascinante la tecnica dei piani sequenza e del successivo “montaggio”... praticamente un gioiello della storia del cinema.
Le sequenze del film che ho sempre portato dentro di me e che, soprattutto, mi hanno spinto ad amare in seguito il mio lavoro sono state quelle immagini girate durante il “Dia de Muertos”.
Nel 2000, dopo alcuni tentativi fatti negli anni precedenti, decisi all’ultimo momento di partire per il Messico e rivisitare, per quanto mi fosse possibile, un pezzettino della pellicola girata da Sergej . Non conoscevo questo Paese ma è come se lo avessi conosciuto da sempre. Sarà per il fatto che ho sempre immaginato, vedendo le foto di mia madre giovane, di avere nel mio albero genealogico un antenato indios. Arrivato a Città del Messico ho subito preso contatti telefonici con dei miei amici che vivono nello stato di Veracruz raggiungendoli il giorno dopo.
A Xalapa, capitale dello stato, pensavo di poter trovare facilmente una troupe che mi avesse permesso di girare materiale sufficiente per realizzare un documentario sulla “Festa dei Morti” visto che dall’Italia avevo portato con me solamente una macchina fotografica. Dopo numerose telefonate ed incontri avuti alla televisione di Stato sono riuscito a trovare un cameramen, Gema, che ha accettato di seguirmi con le sue attrezzature in questa mia avventura. Ora mi restava da capire cosa realmente significasse per i messicani questa Festa, quali erano i luoghi dove era maggiormente sentita, tale da soddisfare le mie aspettative. Ho contattato al Museo di Antropologia il prof. Brizuela, antropologo, un conoscente del mio amico Francisco, il quale non ha avuto alcuna difficoltà nel dedicarmi un po’ del suo tempo per chiarirmi le idee sull’argomento anzi, per l’occasione mi ha invitato al Museo per la preparazione dell’Arco, simbolo della festa del Xantolo, che comprende la festa dei Morti e di tutti i Santi.
Nello stesso giorno, su invito di giovani universitari, conosciuti in una festa la notte precedente, ho seguito una conferenza tenutasi all’Università dal prof. Sergio R. Vasquez Zarate studioso di questo argomento. Non mi è stato difficile comprendere l’importanza e la complessità dell’argomento che mi accingevo a documentare visivamente anche perché, leggendo la relazione del prof. Vasquez Zarate, veniva fuori che la commemorazione del Giorno dei Morti congiunge parti importanti delle credenze dell’indigeno mesoamericano. Non nego che per un momento mi sono sentito così piccolo nei confronti di un rituale, di ancestrali radici, che ha sopravvissuto ai conquistatori spagnoli e all’evangelizzazione della religione cattolica. Non mi sono fatto intimidire e senza riflettere a lungo sull’argomento, ho rintracciato telefonicamente sia il prof. Brizuela che Gema ed ho organizzato le riprese per la preparazione dell’Arco al Museo di Antropologia per la sera stessa.
Appena entrati al Museo, equipaggiati di telecamera, microfono e tanta ansia di iniziare, siamo stati ricevuti dai presenti con molta accoglienza. La mia voglia di sapere, la simpatia di Gema e l’ospitalità e la gentilezza dei presenti hanno reso l’atmosfera serena e conviviale, tipica dei messicani.
Ci hanno offerto delle bevande molto usate in questo periodo ed una di queste, l’aguardiente, bevanda molto alcolica ricavata dall’agave, è quella che maggiormente ricordo nel gusto. Iniziano i preparativi per la costruzione dell’Arco che costituisce la base di una forte struttura in legno che va dal pavimento al soffitto. Completata la struttura si procede ad infiorarla con dei fiori gialli, bianchi e rossi fino a formare “mazzi” di uguale grandezza. Ogni mazzo viene collocato intorno alla struttura secondo il gusto di qui la infiora finché, la simmetria e l’estetica che si riescono ad ottenere, saranno motivo di orgoglio e riconoscimento da parte di chi lo ha costruito. Quando si è terminato di infiorare si procede a mettere alcune varietà di frutta come arance, mele, e banane che pendono dall’Arco ed inoltre si collocano alcuni pezzi di pane. Nel frattempo che costruiscono l’Arco riesco a convincere due musicisti presenti a suonare della musica rituale simile a quella che suonano gli huapangueros nei cimiteri indigeni ma, visto il contesto, inserita in una scenografia molto più antica: ai piedi di un’enorme e bellissima scultura in pietra di una testa Olmeca .
Per tutta la serata avevo acquisito abbastanza elementi da capire che la radice di questa Festa era al nord dello Stato di Veracruz e precisamente nella Huasteca. Inutile dire che ci hanno fornito tutte le indicazioni necessarie per arrivarci ed alcuni nominativi di persone da contattare.
Il giorno seguente noleggio un fuoristrada, cosa non facile a Xalapa, ed insieme a Gema e due ragazzi spagnoli, Pau e Selva, ci dirigiamo verso il nord. Un viaggio non facile tenendo presente le strade e le indicazioni stradali non sempre perfette. E tra qualche sosta e sentieri di terra battuta, più adatta ai muli che alle auto, e circa dieci ore di viaggio arriviamo ad un pueblo, dal nome non molto semplice da pronunciare, ma alla fine del mio viaggio in Messico è l’unico che ricordo con facilità: Chicontepec che letteralmente significa “luogo dai sette colli”.
Pochi chilometri prima di entrare al pueblo ci siamo fermati nei pressi di un fiume nel quale un gruppo di uomini e bambini si bagnavano godendosi il caldo sole. Alcune donne facevano il bucato ed altri ancora tentavano di pescare con canne da pesca artigianali qualche pesce. Incuriositi dalla nostra presenza ed un poco infastiditi dalla telecamera, che ha rubato momenti della loro intimità, ci hanno fatto intendere con i loro sguardi che non eravamo ospiti graditi. Riprendiamo il nostro viaggio e tra il caldo e la polvere alzata da un camion che ci precedeva, un taxi collettivo, entriamo dopo poco in Chicontepec.
Il tempo di sistemare i nostri bagagli in una pensione e subito ci siamo messi alla ricerca di un giovane antropologo che ho conosciuto, per caso, alla biblioteca di Xalapa e che mi aveva invitato a casa dei suoi genitori per l’occasione della Festa. Dopo esserci persi per alcune volte in sentieri di montagna eravamo decisi a rinunciare al nostro incontro con l’antropologo. All’improvviso dietro di noi un taxi ci fa segno di fermarci e solo allora riconosco Arturo che, sorridente, ci fa capire che a breve saremmo arrivati a casa dei suoi genitori. Lasciata l’auto ed in compagnia di Arturo ci dirigiamo a piedi, carichi di attrezzature, per dei sentieri bui e tortuosi che ci avrebbero condotti alla Comunità dove vive la sua famiglia. La Comunità è composta da alcune case in legno distribuite a semicerchio tale da formare un enorme cortile al centro. Una delle poche Comunità “Nahuas” che vivono nei dintorni di Chicontepec. Un’accoglienza calorosa come se ci conoscessimo da sempre creando, inizialmente, un poco di imbarazzo. Dopo brevissime presentazioni ci siamo ritrovati seduti ad un tavolo insieme agli uomini della famiglia, mentre le donne già portavano a tavola le particolari pietanze preparate per la giornata dell’1 novembre, il primo giorno che si danno le “offrendas”. Ci hanno offerto una buonissima tazza di cioccolata e pane dolce e poi i tamales di pollo e peperoncini rivolti in pajpatla (foglie di banano), piatto di antiche origini, preparato sapientemente e con amore dalle donne della Comunità e che sarà il cibo per tutto il periodo del Xantolo. Ci invitano visitare le umili abitazioni e con orgoglio ci spiegano che questa festa è una delle più rappresentative non solo di Chicontepec ma di tutta la Huasteca. Accogliere i defunti per gli abitanti di Chicontepec è un motivo di allegria, dove potranno offrire di nuovo ai loro cari tutto ciò che piacque di più nella tappa terrena. Costume di marcata radice indigena, uno dei riti più significativi di questi giorni è la preparazione dei cosiddetti “Arcos”, che sono un complemento più che fantastico dei tradizionali altari. Costruito a gradinata multicolore con casse rivestite, e ad ogni gradino dell’Arco vengono posti differenti pezzi ornamentali con figure in carta perforata, pezzi di pane con le iniziali del defunto e piccoli recipienti con rami di mais in germoglio che simboleggia la continuità della vita. Per non parlare delle belle tovaglie luccicanti con fedeli ricami tipici della regione e la foto del defunto posta centralmente alla struttura. Alla fine della serata due di loro ci accompagnano, forniti di torce elettriche, alla nostra auto e ci salutano calorosamente invitandoci a trascorrere un po’ di tempo con la propria famiglia nei giorni che seguono.
Il mattino seguente ci siamo svegliati molto presto e dopo una rapida colazione decidiamo di fare un giro a piedi per il paese. Il cielo nuvoloso e grigio non mi poneva certamente di buon umore, anche perché chiedendo notizie in merito alla Festa qualcuno mi aveva detto che ormai, giunto al 2 di novembre tutti gli abitanti delle Comunità vicine erano tornate alle proprie case e che c’era ben poco di interessante da vedere. Cominciavo a pensare di non riuscire a girare quelle bellissime scene, già viste, che, innanzitutto, mi avevano spinto a venire in Messico. Il mercato era l’unico luogo che potesse colorare la mia giornata appannata da pensieri, non certo positivi. Piazziamo la telecamera in una posizione strategica della stradina, tenendo presente che in genere ai messicani non piace molto farsi fotografare, ed insieme a Gema decidiamo di riprendere i bellissimi volti di donne e bambini che cominciavano a movimentare il mercato. Lo stesso facciamo con i banchi preparati con cura dai venditori di frutta e “chile”, con l’artigianato locale dai variegati colori esposti in ogni angolo e di altri diversi generi che riempiono i marciapiedi della strada. Mentre seguivo attentamente le inquadrature che Gema mi proponeva di volta in volta si avvicina a noi una ragazza che, timidamente ed in uno spagnolo raro, mi invita a seguirla. Entriamo in un laboratorio di dolci, dove credo lavorasse, e facendomi strada per delle scale situate sul retro mi conduce dalla padrona del laboratorio e della casa. La signora incuriosita dalla nostra presenza in paese aveva chiesto alla ragazza di condurci da lei. La donna con un sorriso smagliante ed in perfetto castigliano mi chiede come mai eravamo a Chicontepec. Dopo le presentazioni, ci invita ad assaggiare i buonissimi dolci del suo laboratorio. Visitiamo gli Archi, uno piccolo e uno più grande, ricchi di frutta variopinta, fiori gialli, violetti e bianchi. Prepariamo il set con i nostri poveri mezzi a disposizione, frammezzato da un sorso di caffè messicano ed un dolce. Intanto, la donna aiutata da una ragazza completa la preparazione dell’Arco grande riempiendo alla fine le coppe di metallo, sistemate ai piedi degli Archi, di un incenso particolare. L’ambiente si riempie di un buon profumo di incenso, credo servisse a scacciare i cosiddetti “spiriti maligni”. Chiedo alla signora il significato della scia di petali di fiori gialli che sono sparsi sul pavimento. La donna mi racconta che è usuale vedere bimbi o adulti nell’ultimo giorno di ottobre spargere fiori di “cempoalxochiti” per formare un “sentiero “ che dalla strada congiunge all’Arco, con lo scopo di segnare la guida ai fratellini morti. Questo giorno è conosciuto anche come “Giorno degli Angioletti” o de “I Bimbi” per ricordare a tutte le anime “piccole” che di mattina presto, secondo la credenza, potranno prendere dall’Arco tamalitos di fagioli e cioccolata. Allorché, ho saputo dalla donna che nel pomeriggio sarebbe continuata la visita al cimitero da parte degli abitanti di Chicontepec e delle Comunità vicine e che la Festa non era affatto finita i miei occhi si sono riempiti di gioia. Uscita dalla casa ci inoltriamo per dei vicoli stretti che conducevano al cimitero e ne approfittiamo per riprendere qualche esterno del paese. Una vecchietta seduta sull’uscio della porta di casa, celata da una tenda che la divideva dalla strada, ci invita ad entrare per ammirare il suo Arco. Un Arco preparato con cura dal quale si poteva scoprire, sia dagli oggetti riposti sia dalle bellissime foto bianco e nero attaccate alla parete, la storia della sua famiglia. Il tempo necessario per scambiarci qualche battuta e subito una delle donne più giovane presente prepara la tavola con una tovaglia ricamata a mano e con tamales, dolci, cioccolata ed altre pietanze. Un uomo di media età entra dalla porta con in mano una cesta e si avvicina alla vecchietta per salutarla dopodiché si dirige in direzione dell’Arco e vi ripone ai piedi la cesta con le offerte.
Ho capito il significato di questo gesto solamente quando mi hanno spiegato che, negli ultimi giorni di Xantolo, figliocci e padrini attendono questo momento per scambiarsi oltre il grande affetto anche ofrendas di frutta, tamales, birra, pollo. In alcuni casi i figliocci per restare con i propri padrini, in questo “Giorno della Benedizione”, arrivano dalle più diverse Comunità attraversando montagne e fiumi. Naturalmente non manca chi, in questo giorno, preferisce riunirsi nel Camposanto, alla presenza del defunto. Proseguendo il nostro cammino verso il cimitero siamo attratti dal suono di un violino e da una chitarra huapanguera. Ci dirigiamo d’istinto verso la fonte e ci ritroviamo a far parte del gruppo di persone riuniti attorno all’Arco, posto all’entrata della casa. Brevi presentazioni con i presenti e con i musicisti e subito chiedo ad Eduardo, uno del trio dei musicisti, di suonare un pezzo di musica cerimoniale. Mi sono sentito in difficoltà nel fare questa richiesta per il fatto che ho notato sui loro volti la stanchezza di chi ha trascorso una giornata intera, andando di casa in casa, a suonare i “Suoni dell’Arco”.
La difficoltà è svanita quando Eduardo, con disinvoltura e conoscenza dell’argomento, ha cominciato a parlare del grande significato della musica e della cultura huasteca associando alle parole il ritmo musicale ricavato dai propri strumenti. Intanto la proprietaria ci ha offerto tamales e frutta esposta sull’Arco e della buona aguardiente fatta con le proprie mani. Eduardo è stato così gentile, alla fine, da regalarmi due audiocassette registrate dal suo trio invitandomi a utilizzarle, se lo volessi, per il documentario che mi accingevo a realizzare. Usciti dalla casa e arrivati nei pressi del cimitero seguiamo un duo di mariachi che entrano in una “cantina”. La musica non era chiaramente huasteca né tantomemo adatta ai giorni di festa del Xantolo ma sicuramente rappresentava per noi una variazione al tema. Gli ho offerto una birra e in cambio gli ho chiesto di suonare un pezzo da dedicare a Gema, cameramen e compagna indispensabile in questo viaggio. Ne approfittiamo della pausa per riposarci un po’ e per fare un piano di lavoro per le prossime ore. I suoni delle chitarra dei mariachi ci hanno accompagnato per il breve tratto che separava la “cantina” dall’entrata del cimitero. Alcune donne con vestiti coloratissimi, a secondo della Comunità di appartenenza, cominciavano ad entrare nel cimitero. Per tutto il pomeriggio, questo singolare punto di riunione, con tombe variopinte, è diventato il posto più frequentato di Chicontepec, dove abbiamo assistito ad un via vai di gente con fiori, corone, cibo, bevande e naturalmente non poteva mancare la partecipazione di alcuni gruppi di musicisti. Una famiglia indigena recitava il rosario del proprio caro, in lingua nàhuatl, sulla tomba color verde pastello, che si fonde con i suoni provenienti dal violino e dalla chitarra di un duo tradizionale huasteco. Gli huapangueros non si stancavano di andare di tomba in tomba, ricompensati con modiche gratificazioni e con soddisfazione delle famiglie che richiedevano pezzi come il bolero, il corrido ed altro che evidentemente piacevano al defunto.
Un interminabile movimento di persone ha continuato ad affollare il cimitero e solamente la pioggia, che minacciava da un bel po’di tempo, lo ha rallentato.
Molti sono ritornati alla propria Comunità per continuare la Festa ed altri ancora, senza curarsi più di tanto della pioggia, sono rimasti a ballare e cantare in compagnia dei musicisti fino a notte, ritirandosi solamente per lasciare riposare le anime. Anche noi decidiamo di ritornare in albergo, ma prima ho chiesto a Gema di girare l’esterno del cimitero con luce ambiente, inquadratura che avevo pensato di riservare per la chiusura del documentario. Il giorno dopo, con molta comodità, riprendiamo il nostro viaggio di ritorno per Xalapa contenti di essere stati partecipi al giorno del Xantolo, che per gli abitanti di Chicontepec significa letteralmente “Benvenuto”. Guidavo un po’ spedito, l’auto presa a noleggio dalla signora Sanchez, quando, dopo pochi chilometri da Chicontepec, ho dovuto frenare bruscamente per non investire un gruppo di persone che all’improvviso si sono posizionati al centro della strada. Quasi tutti erano vestiti con costumi carnevaleschi e maschere tranne i musicisti che accompagnavano, con i propri strumenti, il movimento ripetitivo ed incalzante del loro corpo: evidentemente una danza indigena.
Ne abbiamo approfittato per girare ancora un poco di nastro e per conoscere meglio queste persone che, così imprudentemente, avevano bloccato alcune auto che transitavano sulla strada. Abbiamo scoperto che il gruppo, in occasione della Festa, ha danzato, passando di Comunità in Comunità, per quattro giorni senza concedersi nemmeno un’ora di sonno. Ci siamo accodati al gruppo ed in una Comunità vicina abbiamo fatto una sosta. Durante una danza improvvisata hanno coinvolto anche Gema nel ballo, che ha accettato l’invito senza alcuna resistenza. Avevo trovato una nuova e più autentica conclusione del documentario o forse solamente l’inizio della conclusione. Un poco come la visione cosmica nahuatl, dove né la natura né l’uomo sono condannati alla morte eterna.
Tutto muore e tutto rinasce.
(Appunti ordinati del disorientamento di un viaggio)
Ero molto più giovane quando ho visto per la prima volta il documentario di Sergej M.Ejzenstejn “Que Viva Mexico”, sono rimasto incollato alla sedia per tutta la durata del film. Affascinante la tecnica dei piani sequenza e del successivo “montaggio”... praticamente un gioiello della storia del cinema.
Le sequenze del film che ho sempre portato dentro di me e che, soprattutto, mi hanno spinto ad amare in seguito il mio lavoro sono state quelle immagini girate durante il “Dia de Muertos”.
Nel 2000, dopo alcuni tentativi fatti negli anni precedenti, decisi all’ultimo momento di partire per il Messico e rivisitare, per quanto mi fosse possibile, un pezzettino della pellicola girata da Sergej . Non conoscevo questo Paese ma è come se lo avessi conosciuto da sempre. Sarà per il fatto che ho sempre immaginato, vedendo le foto di mia madre giovane, di avere nel mio albero genealogico un antenato indios. Arrivato a Città del Messico ho subito preso contatti telefonici con dei miei amici che vivono nello stato di Veracruz raggiungendoli il giorno dopo.
A Xalapa, capitale dello stato, pensavo di poter trovare facilmente una troupe che mi avesse permesso di girare materiale sufficiente per realizzare un documentario sulla “Festa dei Morti” visto che dall’Italia avevo portato con me solamente una macchina fotografica. Dopo numerose telefonate ed incontri avuti alla televisione di Stato sono riuscito a trovare un cameramen, Gema, che ha accettato di seguirmi con le sue attrezzature in questa mia avventura. Ora mi restava da capire cosa realmente significasse per i messicani questa Festa, quali erano i luoghi dove era maggiormente sentita, tale da soddisfare le mie aspettative. Ho contattato al Museo di Antropologia il prof. Brizuela, antropologo, un conoscente del mio amico Francisco, il quale non ha avuto alcuna difficoltà nel dedicarmi un po’ del suo tempo per chiarirmi le idee sull’argomento anzi, per l’occasione mi ha invitato al Museo per la preparazione dell’Arco, simbolo della festa del Xantolo, che comprende la festa dei Morti e di tutti i Santi.
Nello stesso giorno, su invito di giovani universitari, conosciuti in una festa la notte precedente, ho seguito una conferenza tenutasi all’Università dal prof. Sergio R. Vasquez Zarate studioso di questo argomento. Non mi è stato difficile comprendere l’importanza e la complessità dell’argomento che mi accingevo a documentare visivamente anche perché, leggendo la relazione del prof. Vasquez Zarate, veniva fuori che la commemorazione del Giorno dei Morti congiunge parti importanti delle credenze dell’indigeno mesoamericano. Non nego che per un momento mi sono sentito così piccolo nei confronti di un rituale, di ancestrali radici, che ha sopravvissuto ai conquistatori spagnoli e all’evangelizzazione della religione cattolica. Non mi sono fatto intimidire e senza riflettere a lungo sull’argomento, ho rintracciato telefonicamente sia il prof. Brizuela che Gema ed ho organizzato le riprese per la preparazione dell’Arco al Museo di Antropologia per la sera stessa.
Appena entrati al Museo, equipaggiati di telecamera, microfono e tanta ansia di iniziare, siamo stati ricevuti dai presenti con molta accoglienza. La mia voglia di sapere, la simpatia di Gema e l’ospitalità e la gentilezza dei presenti hanno reso l’atmosfera serena e conviviale, tipica dei messicani.
Ci hanno offerto delle bevande molto usate in questo periodo ed una di queste, l’aguardiente, bevanda molto alcolica ricavata dall’agave, è quella che maggiormente ricordo nel gusto. Iniziano i preparativi per la costruzione dell’Arco che costituisce la base di una forte struttura in legno che va dal pavimento al soffitto. Completata la struttura si procede ad infiorarla con dei fiori gialli, bianchi e rossi fino a formare “mazzi” di uguale grandezza. Ogni mazzo viene collocato intorno alla struttura secondo il gusto di qui la infiora finché, la simmetria e l’estetica che si riescono ad ottenere, saranno motivo di orgoglio e riconoscimento da parte di chi lo ha costruito. Quando si è terminato di infiorare si procede a mettere alcune varietà di frutta come arance, mele, e banane che pendono dall’Arco ed inoltre si collocano alcuni pezzi di pane. Nel frattempo che costruiscono l’Arco riesco a convincere due musicisti presenti a suonare della musica rituale simile a quella che suonano gli huapangueros nei cimiteri indigeni ma, visto il contesto, inserita in una scenografia molto più antica: ai piedi di un’enorme e bellissima scultura in pietra di una testa Olmeca .
Per tutta la serata avevo acquisito abbastanza elementi da capire che la radice di questa Festa era al nord dello Stato di Veracruz e precisamente nella Huasteca. Inutile dire che ci hanno fornito tutte le indicazioni necessarie per arrivarci ed alcuni nominativi di persone da contattare.
Il giorno seguente noleggio un fuoristrada, cosa non facile a Xalapa, ed insieme a Gema e due ragazzi spagnoli, Pau e Selva, ci dirigiamo verso il nord. Un viaggio non facile tenendo presente le strade e le indicazioni stradali non sempre perfette. E tra qualche sosta e sentieri di terra battuta, più adatta ai muli che alle auto, e circa dieci ore di viaggio arriviamo ad un pueblo, dal nome non molto semplice da pronunciare, ma alla fine del mio viaggio in Messico è l’unico che ricordo con facilità: Chicontepec che letteralmente significa “luogo dai sette colli”.
Pochi chilometri prima di entrare al pueblo ci siamo fermati nei pressi di un fiume nel quale un gruppo di uomini e bambini si bagnavano godendosi il caldo sole. Alcune donne facevano il bucato ed altri ancora tentavano di pescare con canne da pesca artigianali qualche pesce. Incuriositi dalla nostra presenza ed un poco infastiditi dalla telecamera, che ha rubato momenti della loro intimità, ci hanno fatto intendere con i loro sguardi che non eravamo ospiti graditi. Riprendiamo il nostro viaggio e tra il caldo e la polvere alzata da un camion che ci precedeva, un taxi collettivo, entriamo dopo poco in Chicontepec.
Il tempo di sistemare i nostri bagagli in una pensione e subito ci siamo messi alla ricerca di un giovane antropologo che ho conosciuto, per caso, alla biblioteca di Xalapa e che mi aveva invitato a casa dei suoi genitori per l’occasione della Festa. Dopo esserci persi per alcune volte in sentieri di montagna eravamo decisi a rinunciare al nostro incontro con l’antropologo. All’improvviso dietro di noi un taxi ci fa segno di fermarci e solo allora riconosco Arturo che, sorridente, ci fa capire che a breve saremmo arrivati a casa dei suoi genitori. Lasciata l’auto ed in compagnia di Arturo ci dirigiamo a piedi, carichi di attrezzature, per dei sentieri bui e tortuosi che ci avrebbero condotti alla Comunità dove vive la sua famiglia. La Comunità è composta da alcune case in legno distribuite a semicerchio tale da formare un enorme cortile al centro. Una delle poche Comunità “Nahuas” che vivono nei dintorni di Chicontepec. Un’accoglienza calorosa come se ci conoscessimo da sempre creando, inizialmente, un poco di imbarazzo. Dopo brevissime presentazioni ci siamo ritrovati seduti ad un tavolo insieme agli uomini della famiglia, mentre le donne già portavano a tavola le particolari pietanze preparate per la giornata dell’1 novembre, il primo giorno che si danno le “offrendas”. Ci hanno offerto una buonissima tazza di cioccolata e pane dolce e poi i tamales di pollo e peperoncini rivolti in pajpatla (foglie di banano), piatto di antiche origini, preparato sapientemente e con amore dalle donne della Comunità e che sarà il cibo per tutto il periodo del Xantolo. Ci invitano visitare le umili abitazioni e con orgoglio ci spiegano che questa festa è una delle più rappresentative non solo di Chicontepec ma di tutta la Huasteca. Accogliere i defunti per gli abitanti di Chicontepec è un motivo di allegria, dove potranno offrire di nuovo ai loro cari tutto ciò che piacque di più nella tappa terrena. Costume di marcata radice indigena, uno dei riti più significativi di questi giorni è la preparazione dei cosiddetti “Arcos”, che sono un complemento più che fantastico dei tradizionali altari. Costruito a gradinata multicolore con casse rivestite, e ad ogni gradino dell’Arco vengono posti differenti pezzi ornamentali con figure in carta perforata, pezzi di pane con le iniziali del defunto e piccoli recipienti con rami di mais in germoglio che simboleggia la continuità della vita. Per non parlare delle belle tovaglie luccicanti con fedeli ricami tipici della regione e la foto del defunto posta centralmente alla struttura. Alla fine della serata due di loro ci accompagnano, forniti di torce elettriche, alla nostra auto e ci salutano calorosamente invitandoci a trascorrere un po’ di tempo con la propria famiglia nei giorni che seguono.
Il mattino seguente ci siamo svegliati molto presto e dopo una rapida colazione decidiamo di fare un giro a piedi per il paese. Il cielo nuvoloso e grigio non mi poneva certamente di buon umore, anche perché chiedendo notizie in merito alla Festa qualcuno mi aveva detto che ormai, giunto al 2 di novembre tutti gli abitanti delle Comunità vicine erano tornate alle proprie case e che c’era ben poco di interessante da vedere. Cominciavo a pensare di non riuscire a girare quelle bellissime scene, già viste, che, innanzitutto, mi avevano spinto a venire in Messico. Il mercato era l’unico luogo che potesse colorare la mia giornata appannata da pensieri, non certo positivi. Piazziamo la telecamera in una posizione strategica della stradina, tenendo presente che in genere ai messicani non piace molto farsi fotografare, ed insieme a Gema decidiamo di riprendere i bellissimi volti di donne e bambini che cominciavano a movimentare il mercato. Lo stesso facciamo con i banchi preparati con cura dai venditori di frutta e “chile”, con l’artigianato locale dai variegati colori esposti in ogni angolo e di altri diversi generi che riempiono i marciapiedi della strada. Mentre seguivo attentamente le inquadrature che Gema mi proponeva di volta in volta si avvicina a noi una ragazza che, timidamente ed in uno spagnolo raro, mi invita a seguirla. Entriamo in un laboratorio di dolci, dove credo lavorasse, e facendomi strada per delle scale situate sul retro mi conduce dalla padrona del laboratorio e della casa. La signora incuriosita dalla nostra presenza in paese aveva chiesto alla ragazza di condurci da lei. La donna con un sorriso smagliante ed in perfetto castigliano mi chiede come mai eravamo a Chicontepec. Dopo le presentazioni, ci invita ad assaggiare i buonissimi dolci del suo laboratorio. Visitiamo gli Archi, uno piccolo e uno più grande, ricchi di frutta variopinta, fiori gialli, violetti e bianchi. Prepariamo il set con i nostri poveri mezzi a disposizione, frammezzato da un sorso di caffè messicano ed un dolce. Intanto, la donna aiutata da una ragazza completa la preparazione dell’Arco grande riempiendo alla fine le coppe di metallo, sistemate ai piedi degli Archi, di un incenso particolare. L’ambiente si riempie di un buon profumo di incenso, credo servisse a scacciare i cosiddetti “spiriti maligni”. Chiedo alla signora il significato della scia di petali di fiori gialli che sono sparsi sul pavimento. La donna mi racconta che è usuale vedere bimbi o adulti nell’ultimo giorno di ottobre spargere fiori di “cempoalxochiti” per formare un “sentiero “ che dalla strada congiunge all’Arco, con lo scopo di segnare la guida ai fratellini morti. Questo giorno è conosciuto anche come “Giorno degli Angioletti” o de “I Bimbi” per ricordare a tutte le anime “piccole” che di mattina presto, secondo la credenza, potranno prendere dall’Arco tamalitos di fagioli e cioccolata. Allorché, ho saputo dalla donna che nel pomeriggio sarebbe continuata la visita al cimitero da parte degli abitanti di Chicontepec e delle Comunità vicine e che la Festa non era affatto finita i miei occhi si sono riempiti di gioia. Uscita dalla casa ci inoltriamo per dei vicoli stretti che conducevano al cimitero e ne approfittiamo per riprendere qualche esterno del paese. Una vecchietta seduta sull’uscio della porta di casa, celata da una tenda che la divideva dalla strada, ci invita ad entrare per ammirare il suo Arco. Un Arco preparato con cura dal quale si poteva scoprire, sia dagli oggetti riposti sia dalle bellissime foto bianco e nero attaccate alla parete, la storia della sua famiglia. Il tempo necessario per scambiarci qualche battuta e subito una delle donne più giovane presente prepara la tavola con una tovaglia ricamata a mano e con tamales, dolci, cioccolata ed altre pietanze. Un uomo di media età entra dalla porta con in mano una cesta e si avvicina alla vecchietta per salutarla dopodiché si dirige in direzione dell’Arco e vi ripone ai piedi la cesta con le offerte.
Ho capito il significato di questo gesto solamente quando mi hanno spiegato che, negli ultimi giorni di Xantolo, figliocci e padrini attendono questo momento per scambiarsi oltre il grande affetto anche ofrendas di frutta, tamales, birra, pollo. In alcuni casi i figliocci per restare con i propri padrini, in questo “Giorno della Benedizione”, arrivano dalle più diverse Comunità attraversando montagne e fiumi. Naturalmente non manca chi, in questo giorno, preferisce riunirsi nel Camposanto, alla presenza del defunto. Proseguendo il nostro cammino verso il cimitero siamo attratti dal suono di un violino e da una chitarra huapanguera. Ci dirigiamo d’istinto verso la fonte e ci ritroviamo a far parte del gruppo di persone riuniti attorno all’Arco, posto all’entrata della casa. Brevi presentazioni con i presenti e con i musicisti e subito chiedo ad Eduardo, uno del trio dei musicisti, di suonare un pezzo di musica cerimoniale. Mi sono sentito in difficoltà nel fare questa richiesta per il fatto che ho notato sui loro volti la stanchezza di chi ha trascorso una giornata intera, andando di casa in casa, a suonare i “Suoni dell’Arco”.
La difficoltà è svanita quando Eduardo, con disinvoltura e conoscenza dell’argomento, ha cominciato a parlare del grande significato della musica e della cultura huasteca associando alle parole il ritmo musicale ricavato dai propri strumenti. Intanto la proprietaria ci ha offerto tamales e frutta esposta sull’Arco e della buona aguardiente fatta con le proprie mani. Eduardo è stato così gentile, alla fine, da regalarmi due audiocassette registrate dal suo trio invitandomi a utilizzarle, se lo volessi, per il documentario che mi accingevo a realizzare. Usciti dalla casa e arrivati nei pressi del cimitero seguiamo un duo di mariachi che entrano in una “cantina”. La musica non era chiaramente huasteca né tantomemo adatta ai giorni di festa del Xantolo ma sicuramente rappresentava per noi una variazione al tema. Gli ho offerto una birra e in cambio gli ho chiesto di suonare un pezzo da dedicare a Gema, cameramen e compagna indispensabile in questo viaggio. Ne approfittiamo della pausa per riposarci un po’ e per fare un piano di lavoro per le prossime ore. I suoni delle chitarra dei mariachi ci hanno accompagnato per il breve tratto che separava la “cantina” dall’entrata del cimitero. Alcune donne con vestiti coloratissimi, a secondo della Comunità di appartenenza, cominciavano ad entrare nel cimitero. Per tutto il pomeriggio, questo singolare punto di riunione, con tombe variopinte, è diventato il posto più frequentato di Chicontepec, dove abbiamo assistito ad un via vai di gente con fiori, corone, cibo, bevande e naturalmente non poteva mancare la partecipazione di alcuni gruppi di musicisti. Una famiglia indigena recitava il rosario del proprio caro, in lingua nàhuatl, sulla tomba color verde pastello, che si fonde con i suoni provenienti dal violino e dalla chitarra di un duo tradizionale huasteco. Gli huapangueros non si stancavano di andare di tomba in tomba, ricompensati con modiche gratificazioni e con soddisfazione delle famiglie che richiedevano pezzi come il bolero, il corrido ed altro che evidentemente piacevano al defunto.
Un interminabile movimento di persone ha continuato ad affollare il cimitero e solamente la pioggia, che minacciava da un bel po’di tempo, lo ha rallentato.
Molti sono ritornati alla propria Comunità per continuare la Festa ed altri ancora, senza curarsi più di tanto della pioggia, sono rimasti a ballare e cantare in compagnia dei musicisti fino a notte, ritirandosi solamente per lasciare riposare le anime. Anche noi decidiamo di ritornare in albergo, ma prima ho chiesto a Gema di girare l’esterno del cimitero con luce ambiente, inquadratura che avevo pensato di riservare per la chiusura del documentario. Il giorno dopo, con molta comodità, riprendiamo il nostro viaggio di ritorno per Xalapa contenti di essere stati partecipi al giorno del Xantolo, che per gli abitanti di Chicontepec significa letteralmente “Benvenuto”. Guidavo un po’ spedito, l’auto presa a noleggio dalla signora Sanchez, quando, dopo pochi chilometri da Chicontepec, ho dovuto frenare bruscamente per non investire un gruppo di persone che all’improvviso si sono posizionati al centro della strada. Quasi tutti erano vestiti con costumi carnevaleschi e maschere tranne i musicisti che accompagnavano, con i propri strumenti, il movimento ripetitivo ed incalzante del loro corpo: evidentemente una danza indigena.
Ne abbiamo approfittato per girare ancora un poco di nastro e per conoscere meglio queste persone che, così imprudentemente, avevano bloccato alcune auto che transitavano sulla strada. Abbiamo scoperto che il gruppo, in occasione della Festa, ha danzato, passando di Comunità in Comunità, per quattro giorni senza concedersi nemmeno un’ora di sonno. Ci siamo accodati al gruppo ed in una Comunità vicina abbiamo fatto una sosta. Durante una danza improvvisata hanno coinvolto anche Gema nel ballo, che ha accettato l’invito senza alcuna resistenza. Avevo trovato una nuova e più autentica conclusione del documentario o forse solamente l’inizio della conclusione. Un poco come la visione cosmica nahuatl, dove né la natura né l’uomo sono condannati alla morte eterna.
Tutto muore e tutto rinasce.
salvatore raiola
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