CONTRO LA SCUOLA DEL CAPITALE
PENSIAMO IL FUTURO PER TRASFORMARE IL PRESENTE
Grazie alle mobilitazioni del mondo della scuola (studenti, lavoratori, insegnanti) i punti fondamentali del “decreto Gelmini” e della Finanziaria per il 2009 sono ormai abbastanza noti: nella scuola primaria maestro unico, taglio del tempo scuola, reintroduzione del grembiule e del voto di condotta, eliminazione delle scuole con meno di 50 alunni…; nelle università, drastica riduzione del fondo di finanziamento ordinario, blocco del turn-over (ovvero riduzione del personale docente e non), progressiva trasformazione in fondazioni semi-private...
Meno insegnanti di sostegno, meno Centri per l’Istruzione degli Adulti, meno maestri, meno tempo pieno, meno ore di scuola ai professionali, meno collaboratori scolastici e personale di segreteria, meno ricercatori, meno personale docente e non docente... Tutto questo, combinato con il vertiginoso aumento delle spese di iscrizione e per i libri di testo, non può produrre che un risultato: meno studenti, specialmente nei livelli superiori della formazione, per assecondare il vecchio sogno dei preti e dei padroni, infranto dalle lotte dal ’68 in poi: istruzione di base (e di pessima qualità) “per tutti”, istruzione specialistica solo per i figli dei ricchi.
I figli dei lavoratori immigrati saranno rinchiusi in “classi-ghetto speciali” per permettere ai “nostri ragazzi” di seguire “senza problemi” i programmi della scuola-azienda (la scuola come luogo di educazione alla “cultura” dell’apartheid). I bambini con disagio saranno, ovviamente, abbandonati a loro stessi, in omaggio a quel darwinismo sociale truccato che permette solo ai “sani”, agli “equilibrati” e, soprattutto, ai “figli di buona famiglia” ben sponsorizzati e che possono permettersi i “rinforzini CEPU”, di prepararsi ad ereditare il ruolo sociale dei propri padri.
In una società statica con uno dei più bassi tassi di mobilità sociale ed economica del mondo questo significa blindare ancora di più le classi sociali ed anzi trasformare sempre di più la scuola in strumento per la riproduzione del modo di produzione capitalistico (come avrebbe detto il filosofo francese Louis Althusser, la scuola come “apparato ideologico di Stato”). La Costituzione scritta dopo la Resistenza voleva rimuovere gli ostacoli materiali ed economici che dividono le persone; questa scuola ne aggiunge altri ancora.
Ecco perché contrastare il decreto 133 non basta (tanto più sostituendo la forma conflittuale dell’occupazione-autogestione con la forma un po’ mediatica delle lezioni in piazza), ma dobbiamo mettere in discussione il meccanismo - ben più devastante delle singole misure - secondo cui la scuola tende ad essere sempre più “corso di formazione” per masse giovanili da parcheggiare prima e da inserire poi con le minori contraddizioni possibili nella società capitalistica moderna (ma solo ipoteticamente, perché poi il futuro è per la maggior parte precarietà sociale a tutti i livelli); dobbiamo mettere in discussione il “dogma apparente” di una società caratterizzata dalla progressiva polarizzazione sociale: i ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri (cfr. OECD, Growing unequal?, 2008).
Il problema non è solo il decreto Gelmini, ma il fatto che i figli dei ricchi potranno permettersi di frequentare “con profitto” (termine poco scolastico e molto aziendaleggiante) scuola e università sempre più private e privatizzate - peraltro pagate con i soldi che vengono sottratti a quella pubblica - per poi andare ad occupare il posto cui sono destinati nell’organigramma sociale, mentre i figli di chi è costretto a contrarre mutui e prestiti usurai per tentare di mantenere le proprie condizioni di vita, devono rassegnarsi a frequentare “scuole parcheggio” pronte a sfornare, al massimo, “accettabile” manovalanza da sfruttare come e quando serve.
Noi non pensiamo certo che la scuola possa essere strumento di emancipazione sociale e culturale. E non pensiamo che possa essere, in una società come questa, neppure luogo di educazione; al massimo, di istruzione. Il noto filosofo (e professore universitario) Umberto Galimberti definisce un po’ provocatoriamente la scuola come il “principale elemento di devianza giovanile” (cfr. L’ospite inquietante, 2007), ma questa è solo una faccia della medaglia perché è l’intera società capitalistica che produce “devianza” e disagio, giovanile e non.
Eppure, attraverso le lotte dei lavoratori e degli studenti, alcune importanti conquiste erano state realizzate e queste conquiste ci vengono sottratte una dopo l’altra, una “riforma” dopo l’altra; dalla “Ruberti” - contro cui nacque il movimento studentesco della Pantera nel ’90 - fino al “decreto Gelmini”, passando attraverso la “riforma” Berlinguer e quella della Moratti, tutti i passaggi che si sono susseguiti negli ultimi 20 anni hanno avuto sempre lo stesso filo conduttore: asservire sempre di più la formazione dei giovani agli interessi capitalistici delle imprese, distruggere la scuola pubblica per favorire (sostenendola anche economicamente) quella privata. Da questo punto di vista le fondazioni della Gelmini sono in perfetta continuità con l’“autonomia finanziaria” (ovvero la sponsorizzazione della didattica) di Ruberti e di Berlinguer.
Nelle mobilitazioni di queste settimane gli studenti dicono “noi la crisi non la paghiamo” dimostrando di aver compreso che i tagli alla scuola e all’università hanno un duplice obbiettivo: da un lato, rendere l’istruzione ancora più selettiva dal punto di vista di classe e, dall’altro, risparmiare risorse da destinare al salvataggio dei pescecani della finanza, in preda al panico dopo il devastante tracollo di Wall Street le cui conseguenze sono ancora tutte “da scoprire”. Gli studenti e i lavoratori dicono no: le risorse che dovrebbero essere utilizzate per la scuola e l’università pubblica non possono essere usate per pagare la crisi capitalistica in atto (con il decreto 133 si prevedono tagli per 7,8 miliardi di euro), per salvare banche, finanziarie, assicurazioni, imprese… che in questi anni si sono riempite le tasche con i proventi del sudore e - letteralmente - del sangue dei lavoratori (le statistiche ufficiali, cioè per difetto, parlano di 1.300 morti sul lavoro all’anno).
Gli studenti dicono bene, ma senza mettere in campo una forza di lotta indipendente e di classe, invece, saranno proprio gli “ultimi della società” (economicamente parlando) a pagare: come sempre. E di certo non pagheranno gli squali della finanza e neppure i politici e i sindacalisti che con questi squali gestiscono i consigli di amministrazione di Fondi Pensione Integrativi pieni di quei titoli spazzatura che oggi tutti “scoprono” essere pericolosi (già, ma mentre noi denunciavamo solitariamente questo pericolo, tra il 2006 e il 2007 i governi Berlusconi e Prodi - appoggiati da tutti i partiti dal PRC ad AN e da tutti i sindacati dalla CGIL all’UGL, inventavano la truffa del silenzio-assenso per scippare il TFR dei lavoratori e indirizzarlo ai FPI).
I giovani sono stati educati per anni al qualunquismo, al consumismo, al “menefreghismo” da programmi televisivi insulsi e dal senso di impotenza di genitori piegati dallo squallore di una società marcia che ai figli dei lavoratori non offre nessuna possibilità, né dal punto di vista materiale, né dal punto di vista culturale, una società in cui ci spingono l’uno contro l’altro per meglio ammaestrarci tutti quanti; una società - ci dicono – in cui non c’è più niente per cui valga la pena di lottare. La “storia è finita”, le leggi del capitalismo hanno vinto. Punto e basta, tanto vale adattarsi. E invece la lotta torna prepotentemente sulla scena, con mille motivazioni e un milione di strade possibili e inesplorate. Ma senza mettersi in cammino nessuna mèta può essere raggiunta. Per questo, senza enfasi, ma con fiducia, salutiamo e sosteniamo la mobilitazione degli studenti e dei lavoratori della scuola, sapendo però ben distinguere - guai a non farlo - tra chi si muove solo per sgambettare Berlusconi e spianare la strada al ritorno dei propri padrini centro-sinistri-arcobaleni (che ormai sappiamo bene di che pasta siano fatti) e chi invece si mobilita in buona fede per difendere la scuola dall’ennesimo attacco.
A questi giovani ragazzi genuini - e non agli altri - diciamo che la “posta” in gioco è molto più alta di questo o quel governo, di questa o quest’altra “riforma”: la posta in gioco è il futuro. Ed è proprio dal futuro che dobbiamo partire per poter trasformare il presente.
Non basta unirsi sul “cosa non vogliamo” se non si è capaci di pensare ciò che “vogliamo”. Noi non vogliamo la “Gelmini”, ma neppure la “Berlinguer”. Non vogliamo la legge Biagi, ma neppure il Pacchetto Treu. Non vogliamo l’intervento militare in Iraq, ma neppure quello in Jugoslavia o in Afghanistan. Non vogliamo la Bossi-Fini, ma neppure la Turco-Napolitano. Non vogliamo questo o l’altro governo di guerra e dei padroni. Noi non vogliamo un nuovo governo, vogliamo una nuova società.
Non vogliamo un’unità generica, astratta, impolitica o peggio ancora “bipartizan”, degli studenti in quanto Soggetto. Gli Studenti con la “S” maiuscola non esistono e così neppure gli Insegnanti. Esistono i proletari che studiano e i proletari che lavorano. Vogliamo l’unità degli studenti proletari con i lavoratori precari, dei lavoratori precari con quelli più “garantiti”, degli italiani con gli immigrati, del Nord con il Sud…; vogliamo unire ciò che il padrone cerca ogni giorno e in ogni modo di dividere.
E’ meglio per i figli dei lavoratori poter accedere ad una scuola di regime piuttosto che non poter accedere ad alcuna scuola? Certo, è ovvio, e questo è anche il motivo per cui difendiamo ogni trincea e ci battiamo, come lavoratori, precari e studenti contro il decreto 133. Ma questa, per noi, è solo una tappa di una battaglia più generale che non sarà più contro un decreto o l’altro, ma contro un intero sistema sociale e politico che costringe alla fame, alla guerra, alla morte… miliardi di esseri umani.
Un diritto non è un privilegio; un diritto, per essere tale, deve essere universale. Ce lo insegnano persino le rivoluzioni borghesi. E allora, come lavoratori e figli di lavoratori, lottiamo per il nostro diritto ad una scuola pubblica, di massa, il più possibile indipendente dagli interessi economici e culturali del capitalismo, ma anche per la nostra emancipazione sociale in quanto classe internazionale, lottiamo per la costruzione di una società in cui non ci siano più ricchi e poveri, potenti e sfruttati; una società di liberi ed eguali.
Ottobre 2008
PRIMOMAGGIOFoglio per il collegamento tra lavoratori, precari, disoccupati
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Redazione del Veneto:
Piazzetta S.Gaetano 1, Schio (VI) EMAIL primomaggio.veneto@alice.it
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Redazioni della Toscana
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PENSIAMO IL FUTURO PER TRASFORMARE IL PRESENTE
Grazie alle mobilitazioni del mondo della scuola (studenti, lavoratori, insegnanti) i punti fondamentali del “decreto Gelmini” e della Finanziaria per il 2009 sono ormai abbastanza noti: nella scuola primaria maestro unico, taglio del tempo scuola, reintroduzione del grembiule e del voto di condotta, eliminazione delle scuole con meno di 50 alunni…; nelle università, drastica riduzione del fondo di finanziamento ordinario, blocco del turn-over (ovvero riduzione del personale docente e non), progressiva trasformazione in fondazioni semi-private...
Meno insegnanti di sostegno, meno Centri per l’Istruzione degli Adulti, meno maestri, meno tempo pieno, meno ore di scuola ai professionali, meno collaboratori scolastici e personale di segreteria, meno ricercatori, meno personale docente e non docente... Tutto questo, combinato con il vertiginoso aumento delle spese di iscrizione e per i libri di testo, non può produrre che un risultato: meno studenti, specialmente nei livelli superiori della formazione, per assecondare il vecchio sogno dei preti e dei padroni, infranto dalle lotte dal ’68 in poi: istruzione di base (e di pessima qualità) “per tutti”, istruzione specialistica solo per i figli dei ricchi.
I figli dei lavoratori immigrati saranno rinchiusi in “classi-ghetto speciali” per permettere ai “nostri ragazzi” di seguire “senza problemi” i programmi della scuola-azienda (la scuola come luogo di educazione alla “cultura” dell’apartheid). I bambini con disagio saranno, ovviamente, abbandonati a loro stessi, in omaggio a quel darwinismo sociale truccato che permette solo ai “sani”, agli “equilibrati” e, soprattutto, ai “figli di buona famiglia” ben sponsorizzati e che possono permettersi i “rinforzini CEPU”, di prepararsi ad ereditare il ruolo sociale dei propri padri.
In una società statica con uno dei più bassi tassi di mobilità sociale ed economica del mondo questo significa blindare ancora di più le classi sociali ed anzi trasformare sempre di più la scuola in strumento per la riproduzione del modo di produzione capitalistico (come avrebbe detto il filosofo francese Louis Althusser, la scuola come “apparato ideologico di Stato”). La Costituzione scritta dopo la Resistenza voleva rimuovere gli ostacoli materiali ed economici che dividono le persone; questa scuola ne aggiunge altri ancora.
Ecco perché contrastare il decreto 133 non basta (tanto più sostituendo la forma conflittuale dell’occupazione-autogestione con la forma un po’ mediatica delle lezioni in piazza), ma dobbiamo mettere in discussione il meccanismo - ben più devastante delle singole misure - secondo cui la scuola tende ad essere sempre più “corso di formazione” per masse giovanili da parcheggiare prima e da inserire poi con le minori contraddizioni possibili nella società capitalistica moderna (ma solo ipoteticamente, perché poi il futuro è per la maggior parte precarietà sociale a tutti i livelli); dobbiamo mettere in discussione il “dogma apparente” di una società caratterizzata dalla progressiva polarizzazione sociale: i ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri (cfr. OECD, Growing unequal?, 2008).
Il problema non è solo il decreto Gelmini, ma il fatto che i figli dei ricchi potranno permettersi di frequentare “con profitto” (termine poco scolastico e molto aziendaleggiante) scuola e università sempre più private e privatizzate - peraltro pagate con i soldi che vengono sottratti a quella pubblica - per poi andare ad occupare il posto cui sono destinati nell’organigramma sociale, mentre i figli di chi è costretto a contrarre mutui e prestiti usurai per tentare di mantenere le proprie condizioni di vita, devono rassegnarsi a frequentare “scuole parcheggio” pronte a sfornare, al massimo, “accettabile” manovalanza da sfruttare come e quando serve.
Noi non pensiamo certo che la scuola possa essere strumento di emancipazione sociale e culturale. E non pensiamo che possa essere, in una società come questa, neppure luogo di educazione; al massimo, di istruzione. Il noto filosofo (e professore universitario) Umberto Galimberti definisce un po’ provocatoriamente la scuola come il “principale elemento di devianza giovanile” (cfr. L’ospite inquietante, 2007), ma questa è solo una faccia della medaglia perché è l’intera società capitalistica che produce “devianza” e disagio, giovanile e non.
Eppure, attraverso le lotte dei lavoratori e degli studenti, alcune importanti conquiste erano state realizzate e queste conquiste ci vengono sottratte una dopo l’altra, una “riforma” dopo l’altra; dalla “Ruberti” - contro cui nacque il movimento studentesco della Pantera nel ’90 - fino al “decreto Gelmini”, passando attraverso la “riforma” Berlinguer e quella della Moratti, tutti i passaggi che si sono susseguiti negli ultimi 20 anni hanno avuto sempre lo stesso filo conduttore: asservire sempre di più la formazione dei giovani agli interessi capitalistici delle imprese, distruggere la scuola pubblica per favorire (sostenendola anche economicamente) quella privata. Da questo punto di vista le fondazioni della Gelmini sono in perfetta continuità con l’“autonomia finanziaria” (ovvero la sponsorizzazione della didattica) di Ruberti e di Berlinguer.
Nelle mobilitazioni di queste settimane gli studenti dicono “noi la crisi non la paghiamo” dimostrando di aver compreso che i tagli alla scuola e all’università hanno un duplice obbiettivo: da un lato, rendere l’istruzione ancora più selettiva dal punto di vista di classe e, dall’altro, risparmiare risorse da destinare al salvataggio dei pescecani della finanza, in preda al panico dopo il devastante tracollo di Wall Street le cui conseguenze sono ancora tutte “da scoprire”. Gli studenti e i lavoratori dicono no: le risorse che dovrebbero essere utilizzate per la scuola e l’università pubblica non possono essere usate per pagare la crisi capitalistica in atto (con il decreto 133 si prevedono tagli per 7,8 miliardi di euro), per salvare banche, finanziarie, assicurazioni, imprese… che in questi anni si sono riempite le tasche con i proventi del sudore e - letteralmente - del sangue dei lavoratori (le statistiche ufficiali, cioè per difetto, parlano di 1.300 morti sul lavoro all’anno).
Gli studenti dicono bene, ma senza mettere in campo una forza di lotta indipendente e di classe, invece, saranno proprio gli “ultimi della società” (economicamente parlando) a pagare: come sempre. E di certo non pagheranno gli squali della finanza e neppure i politici e i sindacalisti che con questi squali gestiscono i consigli di amministrazione di Fondi Pensione Integrativi pieni di quei titoli spazzatura che oggi tutti “scoprono” essere pericolosi (già, ma mentre noi denunciavamo solitariamente questo pericolo, tra il 2006 e il 2007 i governi Berlusconi e Prodi - appoggiati da tutti i partiti dal PRC ad AN e da tutti i sindacati dalla CGIL all’UGL, inventavano la truffa del silenzio-assenso per scippare il TFR dei lavoratori e indirizzarlo ai FPI).
I giovani sono stati educati per anni al qualunquismo, al consumismo, al “menefreghismo” da programmi televisivi insulsi e dal senso di impotenza di genitori piegati dallo squallore di una società marcia che ai figli dei lavoratori non offre nessuna possibilità, né dal punto di vista materiale, né dal punto di vista culturale, una società in cui ci spingono l’uno contro l’altro per meglio ammaestrarci tutti quanti; una società - ci dicono – in cui non c’è più niente per cui valga la pena di lottare. La “storia è finita”, le leggi del capitalismo hanno vinto. Punto e basta, tanto vale adattarsi. E invece la lotta torna prepotentemente sulla scena, con mille motivazioni e un milione di strade possibili e inesplorate. Ma senza mettersi in cammino nessuna mèta può essere raggiunta. Per questo, senza enfasi, ma con fiducia, salutiamo e sosteniamo la mobilitazione degli studenti e dei lavoratori della scuola, sapendo però ben distinguere - guai a non farlo - tra chi si muove solo per sgambettare Berlusconi e spianare la strada al ritorno dei propri padrini centro-sinistri-arcobaleni (che ormai sappiamo bene di che pasta siano fatti) e chi invece si mobilita in buona fede per difendere la scuola dall’ennesimo attacco.
A questi giovani ragazzi genuini - e non agli altri - diciamo che la “posta” in gioco è molto più alta di questo o quel governo, di questa o quest’altra “riforma”: la posta in gioco è il futuro. Ed è proprio dal futuro che dobbiamo partire per poter trasformare il presente.
Non basta unirsi sul “cosa non vogliamo” se non si è capaci di pensare ciò che “vogliamo”. Noi non vogliamo la “Gelmini”, ma neppure la “Berlinguer”. Non vogliamo la legge Biagi, ma neppure il Pacchetto Treu. Non vogliamo l’intervento militare in Iraq, ma neppure quello in Jugoslavia o in Afghanistan. Non vogliamo la Bossi-Fini, ma neppure la Turco-Napolitano. Non vogliamo questo o l’altro governo di guerra e dei padroni. Noi non vogliamo un nuovo governo, vogliamo una nuova società.
Non vogliamo un’unità generica, astratta, impolitica o peggio ancora “bipartizan”, degli studenti in quanto Soggetto. Gli Studenti con la “S” maiuscola non esistono e così neppure gli Insegnanti. Esistono i proletari che studiano e i proletari che lavorano. Vogliamo l’unità degli studenti proletari con i lavoratori precari, dei lavoratori precari con quelli più “garantiti”, degli italiani con gli immigrati, del Nord con il Sud…; vogliamo unire ciò che il padrone cerca ogni giorno e in ogni modo di dividere.
E’ meglio per i figli dei lavoratori poter accedere ad una scuola di regime piuttosto che non poter accedere ad alcuna scuola? Certo, è ovvio, e questo è anche il motivo per cui difendiamo ogni trincea e ci battiamo, come lavoratori, precari e studenti contro il decreto 133. Ma questa, per noi, è solo una tappa di una battaglia più generale che non sarà più contro un decreto o l’altro, ma contro un intero sistema sociale e politico che costringe alla fame, alla guerra, alla morte… miliardi di esseri umani.
Un diritto non è un privilegio; un diritto, per essere tale, deve essere universale. Ce lo insegnano persino le rivoluzioni borghesi. E allora, come lavoratori e figli di lavoratori, lottiamo per il nostro diritto ad una scuola pubblica, di massa, il più possibile indipendente dagli interessi economici e culturali del capitalismo, ma anche per la nostra emancipazione sociale in quanto classe internazionale, lottiamo per la costruzione di una società in cui non ci siano più ricchi e poveri, potenti e sfruttati; una società di liberi ed eguali.
Ottobre 2008
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1 commento:
È proprio questo il punto. Temo che non possiamo più permetterci il lusso di criticare la classe politica, non abbiamo più un capro espiatorio di fronte alla constatazione che siamo una società imbarbarita composta di individui imbarbariti.
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