martedì 28 ottobre 2008

Ma Dio è maschio?




M
Innanzitutto chiedo perdono per aver chiamato in causa l’Altissimo per queste terrene quisquilie, e d’altronde non è colpa Sua se gli uomini continuano a peccare in Suo nome.
Sarà che una donna sola europea e per giunta bionda, in Marocco non ha certo vita facile, certo, nemmeno è una tragedia, c’è sempre di peggio, ma insomma non è esattamente un relax. Penso alla questione trita e ritrita del velo. Da buona arabista ho sempre ingaggiato battaglie verbali per difendere le società a maggioranza islamica dai facili stereotipi che vengono loro affibbiati. Finché, camminando da sola per la strada, ho capito. Una cosa semplicissima, non ci voleva tanto ad arrivarci: io stessa ho desiderato in molte occasioni di avere la chioma “tentatrice” occultata sotto un velo, di più, spesso ho desiderato nascondere il mio corpo del peccato sotto un sacco di patate. Una libera scelta, sì, ma in questo caso dettata dalla necessità di proteggermi dagli sguardi lascivi che mi accompagnano ad ogni passo, per non parlare dei gemiti disgustosi che a volte mi vengono rivolti. E sì, perché la mia testa scoperta, i miei capelli biondi – sebbene raccolti -, il fatto di andare in giro da sola e non essere sposata alla veneranda età di 26 anni, sono un segno inequivocabile di disponibilità. Più o meno come la retorica sulle donne che sono state violentate perché “mostravano un atteggiamento provocante”. E sia. Leggo nel Corano che in paradiso ad ogni beato verranno fornite in dotazione settanta huri, fanciulle bellissime che restano vergini in eterno, malgrado indugino con generosità nelle delizie d’amore a favore del beato che è stato loro assegnato. Quindi non solo disponibili, ma pure vergini. Una volta chiesi delucidazioni a un uomo musulmano e mi disse che Dio ha pensato a tutto: in paradiso infatti le donne non saranno gelose dei loro mariti terreni e gioiranno per i loro piaceri. Beh, a Napoli si direbbe “curnut’ e mazziat’”. Che Dio mi perdoni di nuovo se oso citare il libro sacro e lungi da me l’intenzione di fornire un’interpretazione letteralista del Corano, sarebbe un disastro. La mia intenzione è quella di darne un’interpretazione da una prospettiva di genere, riferita a come certe idee vengano recepite dalla mente dell’uomo maschio, e il passo del Corano è solo un esempio. E se bisogna urlare, allora urliamo. Qualcuno mi spiega perché perfino in certi paradisi la figura femminile deve essere non un soggetto, ma un oggetto a uso e consumo dell’uomo maschio? Perché la parola Dio è al maschile e dove sono I settanta huri maschi che ci sollazzeranno per l’eternità? Solo uno stupido esempio, e chiedo ancora perdono all’Onnipotente perché credo in Lui, ma non nelle sue creature, molto spesso. Immagino l’età dell’oro – forse mai esistita, ma ci piace sognare - della Madre Terra, quando la divinità era femmina e le donne potevano danzare nei boschi senza essere accusate di stregoneria. Quando i loro ventri non erano trattati come macchine di produzione da tenere sotto stretto controllo, ma come scrigni preziosi cui rendere grazie per il fatto di custodire la Vita. Bah, discorsi superati, vecchi resti riesumati dagli anni ’60, ormai non fanno più effetto a nessuno, almeno a casa nostra.
Il pensiero torna a Tamait Ofella, un villaggio poverissmo nella campagna di Agadir che non è segnato nemmeno sulle carte. Sono con Rachida, la giovane assistente sociale responsabile del progetto “Petites bonnes”, le bambine dai 7 anni di età che vengono “vendute” – è questo il termine impiegato dagli intermediari – a ricche famiglie di città per svolgere il lavoro domestico. Spesso le madri sono del tutto ignare dei diritti dell’infanzia e non sanno che le bambine subiranno abusi di ogni genere, dallo sfruttamento fino alla violenza sessuale e ai maltrattamenti, come le bruciature di sigaretta. Le più sfortunate tra loro potranno rimanere incinte in seguito a violenza, diventeranno ragazze-madri e saranno rifiutate dalla famiglia e marchiate dalla società. Parliamo con l’imam della moschea, lui è l’unico che ha il potere di risvegliare le coscienze nella comunità. Mi permette di entrare nella moschea, purché non abbia le mestruazioni. Già, il sangue è tabù, guarda caso le donne per natura si ritrovano ad essere titolari di una delle maggiori impurità.
Incontriamo le donne del villaggio, alcune timide, altre più esuberanti, ma tutte contente di ricevere l’ospite straniera che viene da lontano per conoscere la vita di Tamait Ofella. Tutte sorridono, mi osservano, chi mi regala una mela, chi un mazzo di basilico, mi regalano ciò che hanno. La più anziana mi ispira una certa deferenza, era analfabeta fino a poco tempo fa, mi mostra il suo quaderno, lo sfoglio, semplici esercizi di lingua araba come quelli che svolgevo al primo anno di università, ma mi mostro sinceramente ammirata: non è facile apprendere a scrivere in tarda età, agli analfabeti bisogna insegnare come si tiene in mano una penna e si inizia con il far tracciare delle semplici linee rette. Mi spiega che sa riconoscere le parole scritte ma a volte le manca il collegamento tra l’idea e la forma grafica. Pazienza, le dico, migliorerà col tempo, inchallah. Nell’associazione nella quale svolgo il mio stage ho incontrato donne che venivano a chiedere aiuto perché i loro padri, mariti e fratelli impedivano loro di frequentare i corsi di alfabetizzazione. Ormai sono “vecchie”, si sono sposate e hanno fatto figli. La loro missione sulla terra è compiuta, perché chiedere di più? Già.
Arrivano i bambini della scuola, tutti bellissimi naturalmente, e mi fanno una gran tenerezza, poi guardo le bambine e... per un momento un dubbio mi assale. Forse alcuni tra quei bambini verranno strappati troppo presto alla loro innocenza? Forse qualcuno di loro un giorno potrebbe diventare l’aguzzino di una delle sue antiche compagne di gioco? Scaccio immediatamente l’idea, i bambini sono solo bambini, sta a noi cercare di spingerli nella giusta direzione affinché non cadano vittime della miseria e delle disfunzioni della società.
Una delle donne, sulla quarantina, mi mostra il piccolo forno di pietra in cui si cuoce il pane. Credo che ai tempi di Cristo il pane si facesse così, e così si fa ancora a Tamait Ofella. E in effetti quel pane ha un sapore arcaico come non l’ho mai provato, credo che sia l’archetipo stesso del pane. Poi la donna mi mostra con orgoglio il suo “appartamento”: una capanna di argilla distribuita intorno ad un cortile, le stanze prive di mobili, solo qualche stuoia, una bomboletta a gas per cucinare e altre povere cose. Ma lei in quel momento è la Signora del Palazzo ed io sono onorata della sua ospitalità. Continua a sorridere, ma i suoi occhi parlano d’altro, i pensieri non la abbandonano un attimo. Ma la donna che mi ha conquistato all’istante è Khaddouja. Sui 35 anni, in carne, un sorriso che – come descriverlo? Lei non ride con la bocca, ma tutto il suo viso si illumina, un viso aperto e pieno come un sole. Pranzo a casa sua, ha preparato un’ottima tajine, mi congratulo, “l’ho fatta in fretta, giusto 5 minuti”- replica con orgoglio dissimulato. Continua ad incitarmi, “mangia, mangia!”, e mi porge i bocconi migliori del grande piatto comune. Mangio di gusto e quanto più posso, anche se alla fine del pasto mi rimprovera, “ma non hai mangiato niente”. Pazienza, non è mai abbastanza. Alla fine della giornata mi regala un dolce e mi concede la ricetta scritta in arabo, il suo piccolo segreto. Mi regala anche un centrotavola fatto a mano – la tessitura è l’unica attività economica che queste donne possano svolgere. Ringrazio di cuore, non ho mai provato un affetto così istantaneo per una donna sconosciuta. La sera stessa mi manda un messaggio sgrammaticato – lei è berberofona, conosce i rudimenti dell’arabo e appena qualche frase in francese. “Salut. Commentvas.tu? Khaddouja, association Iqra. Bonne nuit”. Le rispondo immediatamente, le dico che resteremo in contatto, che è stato un vero piacere conoscerla. Le rispondo con molte più parole del necessario, non so se mi capirà, ma voglio che il messaggio sia chiaro.
Non lo dice Khaddouja, ma io tra le righe di quel messaggio leggo un tacito invito... Non ti dimenticare di noi, adesso tu sai che esistiamo, e se mai potessi fare anche solo una piccolezza per aiutarci, fallo.
Signori miei, vi sembrerà che ho raccontato cose risapute, anzi, nel mondo succede di peggio e non lo metto in dubbio. Non sono una femminista, rifuggo le ideologie che generano solo più conflitti, ma quando constato che la dignità umana non è rispettata, allora mi schiero con i vinti. Con le donne, le bambine e i bambini, in questo caso. Quello che ho urlato qui con voi questa sera a proposito del dominio dell’uomo maschio, a sua volta vittima della miseria e dell’ignoranza, è per Khaddouja e le donne di Tamait Ofella. Forse è tardi per loro, ma il mio desiderio è che almeno le loro figlie o nipoti possano riscattare col tempo il posto che spetta loro nel mondo. Alla faccia del patriarcato, in questo caso.

4 commenti:

Hannah ha detto...

Grazie per questo tuo racconto dalle immagini vive, e per aver avuto il fiato di urlarlo qui sopra. Scrivo dalla Bosnia, dove lavoro come arte terapeuta, e mi rincuora molto non sentirmi sola ad "urlare"... Hannah

Hannah ha detto...

Grazie per questo tuo racconto dalle immagini vive, e per aver avuto il fiato di urlarlo qui sopra. Scrivo dalla Bosnia, dove lavoro come arte terapeuta, e mi rincuora molto non sentirmi sola ad "urlare"... Hannah

Morgana ha detto...

Anch'io ho letto il tuo articolo, grazie a te piuttosto per aver scelto di fare quello che fai. Io piuttosto sono ancora alla ricerca di quello che farò, in fondo "non so fare niente", a parte parlare arabo, entrare in empatia, indignarmi e sentire la necessità di raccontarlo. Forse c'è bisogno di esplorare i limiti prima di trovare la strada e qui ho appena iniziato ad addentrarmi. Posso solo vagamente immaginare come ti senti laggiù, ma tieni duro, se lo stai facendo proprio tu è perché lì c'era bisogno proprio di te...

Hannah ha detto...

Sì i propri limiti, hai ragione quelli non si finisce mai di incontrarli, soprattutto in lavori come il nostro, ma opposta ad ogni limite trovo una nuova risorsa, a da lì inizia il lavoro vero.... Credo che proprio possiamo capirci a vicenda.